(su tema simile vedi T.A.R. Emilia Romagna, sez. Parma, 10 maggio 2000, n. 266 e Consiglio di Stato, sez. V, 27 ottobre 2000, n. 5756)
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Quinta Sezione ha pronunciato la seguente
sul ricorso in appello n. 5006/95, proposto da Z.G. S.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati U.F., P.G.T. ed E.R. e presso il primo elettivamente domiciliata in Roma, via ...,
il Comune di BRESSO, in persona del Sindaco p.t., costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dall'avvocato G.M. ed elettivamente domiciliato in Roma, Via ...i;
della sentenza del T.A.R. della Lombardia, sede
di Milano, Sezione II, 2 maggio 1994, n. 281;
visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune appellato;
viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
visti gli atti di causa;
relatore, alla pubblica udienza del 14 novembre 2000, il Cons. Paolo BUONVINO e
udito l'avv. M. per il Comune appellato.
Ritenuto e considerato, in fatto e in diritto, quanto segue:
1) - Con il ricorso di primo grado era impugnato
il provvedimento 22 settembre 1988, n. 9213/88, con il quale il Sindaco del
Comune di Bresso aveva denegato il rilascio di concessione edilizia richiesta
con istanza del 29 luglio 1988, relativa alla realizzazione di un centro di
ricerca farmaceutica applicata, da edificarsi su di un'area di proprietà della
società ricorrente, con superficie di mq 45.197, vincolata ad attrezzature
pubbliche e collettive dal P.R.G. approvato in 24 ottobre 1974.
Secondo l'originaria ricorrente, poiché detto vincolo era da ritenersi scaduto
ai sensi dell'art. 2, comma primo,
della legge n. 1187/1968, non avrebbe potuto essere legittimamente rigettata
la propria istanza edificatoria, formulata nel rispetto della disciplina delle
c.d. "zone bianche" di cui all'art.
4, ultimo comma, della legge n. 10/1977.
Il diniego di concessione poggiava su una serie di considerazioni, tutte
contestate dall'odierna appellante.
2) - Il T.A.R., dopo avere accolto il primo
motivo di ricorso (con il quale il provvedimento impugnato era censurato nella
parte in cui il Comune negava la decadenza stessa del vincolo), rigettava il
ricorso avendo ritenuto che la situazione dell'area della ricorrente che, a
seguito della decadenza del vincolo, non risultava, allo stato, più interessata
da pianificazione urbanistica, continuava ad essere quella di un'area che,
all'interno di uno strumento urbanistico vigente, era priva di destinazione
funzionale e la cui disciplina era da ritenersi, quindi, dettata dall'art.
49, lett. a), della legge regionale n. 51/1975, che non consentiva comunque
la realizzazione di insediamenti produttivi; al contrario, non poteva trovare
applicazione la disciplina - invocata nelle sue difese dalla stessa ricorrente -
di cui alla lettera d) del medesimo art. 49.
Il ricorso era, quindi, respinto, ma con l'avvertenza che la definizione del
giudizio avveniva nell'ambito dei poteri di accertamento propri della
giurisdizione esclusiva devoluta al GA dall'art.
16 della legge n. 10/1977 (tale precisazione era, dai primi giudici,
ritenuta opportuna in quanto nel provvedimento impugnato non vi era alcun
riferimento all'art. 49, lett. a), della LR n. 51/1975, che non consentiva il
rilascio della richiesta concessione; situazione, questa, che giustificava anche
l'assorbimento degli ulteriori motivi di ricorso).
3) - Con il primo motivo d'appello censura,
l'appellante, il fatto che il T.A.R. (nel ritenere applicabile, nella specie, il
disposto di cui all'art. 16 della legge n.10/1977) si sia ritenuto legittimato a
definire la controversia invocando una disposizione legislativa (art. 49 della
LR n.51/1975) diversa da quella supposta dal provvedimento impugnato (art. 4
della legge n. 10/1977); né il T.A.R. avrebbe potuto richiamarsi alla ritenuta
giurisdizione esclusiva di cui al citato art. 16, poiché tale norma non
condurrebbe ad una ipotesi di giurisdizione esclusiva di merito per quanto
riguarda la competenza sul rilascio o diniego della concessione edilizia.
In ogni caso, sempre secondo l'appellante, la norma indicata dal T.A.R. non
sarebbe affatto di ostacolo, se correttamente interpretata, al rilascio del
richiesto titolo edificatorio.
L'appellante ripropone, poi, gli altri motivi del ricorso di primo grado,
assorbiti dal T.A.R., e chiede che, in accoglimento dell'originario ricorso e
dell'appello, venga annullato il provvedimento di diniego oggetto di
impugnativa.
Il Comune appellato insiste, nelle proprie difese, per il rigetto dell'appello
perché infondato.
Con memoria conclusionale la Società appellante ribadisce le proprie tesi
difensive.
1) - Si duole l'appellante del fatto che il T.A.R.,
invocando l'applicabilità, nella specie, dei poteri di accertamento propri
della giurisdizione esclusiva devoluta al giudice amministrativo dall'art. 16
della legge n.10/1977, abbia respinto l'originario ricorso rifacendosi a
considerazioni che l'Amministrazione non aveva posto a fondamento della propria
determinazione negativa; secondo l'appellante tale norma non condurrebbe ad una
ipotesi di giurisdizione esclusiva di merito per quanto riguarda la competenza
sul rilascio o diniego della concessione edilizia.
La censura è fondata.
L'art. 16 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, prevede che "i ricorsi
giurisdizionali contro il provvedimento con il quale la concessione viene data o
negata nonché contro la determinazione e la liquidazione del contributo e delle
sanzioni previste dagli artt. 15 e 18 sono devoluti alla competenza dei
tribunali amministrativi regionali".
Tale norma devolve, peraltro, al giudice amministrativo la giurisdizione
esclusiva solo in relazione a quelle determinazioni amministrative che incidono
su diritti soggettivi e, in particolare, su quelle relative alla determinazione
dei contributi di costruzione o urbanizzazione; in particolare, è stato
ritenuto che la norma in questione configura un'ipotesi di giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo in materia di contributi di concessione
edilizia, sicché, qualora, ad esempio, il concessionario contesti
l'appartenenza stessa del potere impositivo in capo all'Amministrazione,
sostenendo, ad esempio, di avere diritto alla esenzione, la situazione dedotta
è di diritto soggettivo ed è quindi azionabile nel termine di prescrizione;
qualora invece il concessionario contesti il corretto esercizio del potere
stesso la situazione dedotta è di interesse legittimo ed è quindi azionabile
nel termine di decadenza (cfr. Sez. V, n. 291 del 16-05-1989).
Quando il giudizio attiene, dunque, all'apprezzamento della legittimità
dell'azione amministrativa in merito al rilascio o meno del titolo edificatorio,
si rientra, allora, nella normale giurisdizione di legittimità del giudice
amministrativo, che si muove su di un piano esclusivamente impugnatorio; con la
conseguenza che le censure che investono i motivi posti dall'Amministrazione a
fondamento del provvedimento stesso non possono essere, per così dire,
sostituiti dal giudice amministrativo con altre argomentazioni che non si
rinvengono nel provvedimento stesso e che l'Amministrazione non ha fatto
proprie.
Con la conseguenza che, se i motivi posti dalla PA a fondamento del rigetto del
titolo concessorio si dovessero rivelare illegittimi, l'eventuale annullamento
del diniego da parte del GA adito non inibisce all'amministrazione di reiterare
il provvedimento stesso sulla base di una diversa e corretta motivazione; ma
questa non può essere "prestata" dal giudice all'Amministrazione in
sede di impugnazione dell'originario provvedimento negativo, in quanto,
altrimenti, verrebbe ad assegnarsi al giudice stesso la facoltà di integrare o
modificare in misura determinante la motivazioni poste dalla PA a base delle
proprie scelte e, quindi, porsi alla stregua di un organo di amministrazione
attiva.
Ne consegue che la legittimità del provvedimento nella specie impugnato con il
ricorso di primo grado può essere verificata avendo come parametro di
riferimento solo le ragioni reiettive addotte in concreto dall'Amministrazione,
mentre non può tenersi conto di altre e diverse considerazioni che nel
provvedimento stesso non hanno trovato alcuno spazio; e, in particolare, quella
del contrasto del progetto con il disposto di cui all'art. 49, lett.a), della LR
n.51/1975; vero che si tratta di disciplina regionale astrattamente applicabile,
secondo quanto previsto dall'art. 4, ultimo comma della legge n. 10 del 1977,
invocato dall'originaria ricorrente; ma tale disciplina regionale non risulta
specificamente invocata dal Comune di Bresso, che fa riferimento alla legge
urbanistica regionale solo al punto 5) del proprio provvedimento, in relazione
all'asserita violazione dell'art. 22 della legge stessa.
Donde la fondatezza della censura che investe tale capo della sentenza
impugnata, risolutivo per la definizione di quel giudizio.
2) - Non di meno, ad avviso del Collegio,
l'originario ricorso - le cui censure, assorbite dal T.A.R., vengono di seguito
esaminate - appare infondato.
Con il primo dei motivi posti a sostegno del rigetto dell'istanza concessoria
assume il Comune che l'edificazione sarebbe subordinata all'approvazione
preventiva di un piano attuativo; secondo l'appellante tale motivo di diniego
sarebbe erroneo in quanto la zona in cui dovrebbe ricadere l'intervento è già
sufficientemente urbanizzata; inoltre l'intervento in questione non avrebbe
carattere lottizzatorio, risolvendosi in un intervento unitario (realizzazione
di un unico edificio, di circa mc. 67.000, da destinarsi a nuovo centro di
ricerca farmaceutica applicata e relativi accessori, da realizzarsi nel rispetto
dei limiti volumetrici stabiliti, per gli impianti produttivi, dall'art. 4 della
legge n. 10 del 1977, secondo cui - ultimo comma, lett. c - le superfici coperte
degli edifici o dei complessi produttivi non possono superare un decimo
dell'area di proprietà); sicché dovrebbe escludersi l'esigenza di qualsiasi
strumento di attuazione.
La censura non ha pregio; anzitutto va premesso che, quando la natura
dell'intervento lo richieda, lo strumento attuativo può rivelarsi necessario
anche in caso di realizzazione di opere nelle c.d. "zone bianche"
(anche se da realizzarsi nei circoscritti limiti in esse consentiti); ciò in
quanto interventi costruttivi di consistente rilievo, anche se unitari, ben
possono richiedere, per la loro complessità e per l'incidenza urbanistica in
grado di sviluppare rispetto alla situazione in atto (a seguito, ad esempio, del
maggiore assorbimento delle reti elettriche, idriche o del gas o dell'aggravio
di quelle fognanti, correlati al maggior carico insediativo umano e tecnologico,
all'aumento della circolazione di mezzi leggeri e pesanti etc.) la realizzazione
di un apposito strumento attuativo, sia esso di iniziativa pubblica o privata.
La Sezione, del resto, anche recentemente ha affermato (cfr. 4 agosto 2000, n.
4295) che le opere di urbanizzazione sono opere che trascendono le dimensioni
del singolo lotto edificabile, per cui la loro pianificazione è effettuabile
soltanto con uno strumento urbanistico attuativo; e che l'ipotesi di piani
regolatori che - come nella specie- abbiano perduto in parte la loro efficacia,
è da considerare prossima a quella dei piani che comprendono ab origine
"zone bianche", piuttosto che a quella dei piani regolatori
inesistenti; con la conseguenza che il venire meno dell'efficacia di una
specifica destinazione non può equivalere alla totale inesistenza del piano
urbanistico generale e che l'autorità comunale preposta non può limitarsi al
controllo degli standards di cui all'art.
41-quinquies della LU n. 1150/1942 e all'art.
4 della legge n. 10/1977, perché la concessione è in ogni caso subordinata
alla esistenza delle opere di urbanizzazione o alla previsione comunale della
loro realizzazione entro un triennio o all'impegno del privato di costruirle
insieme all'opera in progetto (art.
10 della legge n. 765/1967).
E che il piano di lottizzazione possa rivelarsi necessario anche con riguardo ad
edifici singoli è stato affermato a più riprese dalla giurisprudenza di questo
Consiglio (cfr., tra le altre, Sez. V, 6 aprile 1991, n. 446; Ad. plen., 6
ottobre 1992 n. 12; Sez. IV, 9 novembre 1993 n. 37; Sez. V, 1° febbraio 1995,
n.162); secondo cui, inoltre, la fattispecie lottizzatoria, se esula dalle
situazioni di zone completamente urbanizzate, sussiste, invece, non soltanto
nelle ipotesi estreme di zone assolutamente inedificate, ma anche in quelle,
intermedie, di zone parzialmente urbanizzate, nelle quali si configuri
un'esigenza di raccordo col preesistente aggregato abitativo e di potenziamento
delle opere di urbanizzazione (cfr. Cons. Stato, V, 7 ottobre 1985, n. 308; 7
maggio 1991, n. 712; 22 aprile 1992, n. 351; n.162/1995 cit.); sul punto la
Sezione ha anche più volte sottolineato che per escludere la lottizzazione deve
essere verificata una situazione di pressoché completa e razionale edificazione
della zona tale da rendere del tutto superfluo un piano attuativo (Cons. Stato,
V, 22 aprile 1992 n. 351 cit.).
Ebbene, l'intervento in parola, sebbene unitario, sarebbe in grado di
svilupparsi su di una superficie considerevole (mq. 4.500 circa di edificazione)
e con volumetria - già sopra indicata, di circa mc. 67.000, che tiene conto,
peraltro, solo dei volumi fuori terra, cui si aggiungono circa mc. 14.000 di
opere interrate - del pari rilevante.
Per le sue dimensioni, quindi, si tratta di un insediamento in grado di
spostare, sull'area di proprietà della ricorrente, un elevato numero di
lavoratori, tecnici, funzionari, ospiti etc., con gli aggravi di traffico e di
maggiore assorbimento e aggravamento per i servizi di cui si è detto; tanto è
dimostrato, del resto, dall'area destinata a parcheggio (3.682mq) che consente
di veicolare giornalmente, nell'area stessa, un considerevole numero di
automezzi, anche pesanti.
Era, quindi, onere dell'impresa richiedente documentare, fin dall'istanza di
concessione edilizia, la sussistenza di opere di urbanizzazione primaria e
secondaria già di per sé sufficienti o, se insufficienti, la medesima avrebbe
dovuto indicare di quali opere intendeva farsi direttamente carico, corredando
il progetto di una specifica analisi in tal senso.
Ciò non risulta che essa abbia fatto; la documentazione prodotta in giudizio
non evidenzia, infatti, la redazione e produzione di alcun concreto studio o
proposta puntuale nei sensi anzidetti; e anche sul piano processuale, al di là
di generiche affermazioni di parte, non viene in alcun modo documentata la
sussistenza certa, all'epoca, di opere di urbanizzazione primaria e secondaria
sufficienti ed adeguate funzionalmente all'intervento produttivo che si
intendeva realizzare. Le fotografie prodotte documentano soltanto la presenza, a
margine di un'ampia area inedificata, di taluni edifici e di una strada e sono,
quindi, inadeguate allo scopo di dare conto della presenza di valide e idonee
opere di urbanizzazione delle quali l'area di specie sarebbe stata in grado di
fruire.
L'appellante, del resto, non lamenta il difetto di motivazione in merito alla
insussistenza o insufficienza delle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria, tali da inibire, al momento della pronuncia del diniego,
l'edificabilità dell'area; assume, per contro, ma solo in giudizio, l'esistenza
e piena sufficienza delle opere stesse; ma in tal senso le allegazioni qui
addotte, per quanto detto, non appaiono sufficienti a supportare la doglianza in
esame.
Correttamente, quindi, tenuto conto della portata dell'intervento in questione e
della mancata, puntuale documentazione in merito alla sufficienza delle opere di
urbanizzazione e/o alla possibile integrazione, da parte privata, di quelle
eventualmente mancanti, è stata respinta l'istanza edificatoria, la stessa
potendo tenere conto solo di quanto in concreto in essa addotto e documentato.
Tanto sarebbe già sufficiente per il rigetto dell'originario ricorso.
3) - Per ragioni analoghe a quelle ora dette, il
ricorso appare infondato, però, anche con riguardo ad un'altra delle
motivazioni addotte a sostegno del diniego.
Il progetto, in particolare, secondo l'Amministrazione appellata, non
rispetterebbe né gli standards urbanistici sui parcheggi pubblici di cui all'art.
22 della legge regionale n. 51/1975, né l'art.
41-sexies della L.U. n. 1150/1942. sui parcheggi privati.
Per l'appellante la decadenza dei vincoli imposti dallo strumento urbanistico
farebbe venire meno l'esigenza stessa di rispettare gli standards relativi ai
parcheggi pubblici di cui al citato art. 22; ciò in quanto tale norma
preciserebbe in modo inequivocabile che il suo ambito di applicazione riguarda
esclusivamente gli strumenti urbanistici comunali e non anche i progetti di
singoli edifici; con la conseguenza che avrebbe potuto trovare applicazione,
nella specie, solo la disciplina di cui al citato art. 41sexies sui parcheggi
privati che, nella specie, contrariamente a quanto sostenuto dal Comune, sarebbe
stata rispettata; mentre illegittimamente la PA avrebbe tenuto conto, nei propri
calcoli svolti con riguardo all'ipotesi subordinata di applicabilità di tale
ultima norma, anche della volumetria interrata.
Sennonché, sotto il primo profilo, deve ritenersi che le esigenze generali di
programmazione del territorio non vengono del tutto meno quando la destinazione
originaria assegnata ad una determinata zona dal piano regolatore si converta in
una sostanziale destinazione a "zona bianca" a seguito della decadenza
del vincolo urbanistico.
Come si è visto sopra, anche per edifici unitari, ma di impatto urbanistico
elevato, quale quello di cui si discute, l'esigenza di assicurare il rispetto
degli standards urbanistici rimane ferma; e ferma deve rimanere, quindi,
l'esigenza di assicurare, anche nel caso in esame, il rispetto delle disciplina
normativa urbanistica di livello regionale, secondo quanto previsto dall'ultimo
comma dell'art. 4 della legge n. 10/1977, invocato, come si è già visto,
dall'impresa interessata.
Ebbene, questa non ha dimostrato che i limiti di cui al ripetuto art. 22 della
legge urbanistica regionale siano stati rispettati in sede progettuale; al
contrario, afferma che sarebbero stati rispettati soltanto i più favorevoli -
per la medesima - limiti di cui all'art.
41-sexies della L.U. n. 1150/1942; donde l'infondatezza della
censura.
Ma, passando al secondo dei detti profili di doglianza, anche i limiti contenuti
nella norma da ultimo citata, a ben vedere, non risultano rispettati.
Qualora, infatti, le volumetrie interrate si prestino allo svolgimento delle
stesse attività produttive connaturate all'intervento che si va a realizzare,
anche esse sono in grado, in quanto utilizzabili agli stessi fini, di ingenerare
un aggravio dell'insediamento antropico, ancorché fluttuante; con la
conseguenza che le aree di parcheggio vanno realizzate tenendo conto anche di
quei volumi interrati che si pongono a servizio dell'attività produttiva, nei
quali questa può essere svolta o che, comunque, consentano di perfezionarne il
ciclo produttivo, con esclusione solo dei c.d. volumi tecnici e delle aree
interrate eventualmente destinate a parcheggio coperto (altrimenti potrebbero
sfuggire al computo delle volumetrie utili ai fini di cui si discute anche
interventi di edilizia destinata ad attività produttive di rilevantissima
portata).
Ebbene, nella specie i volumi interrati erano destinati, tra l'altro, a
laboratorio e magazzino, sicché, almeno per tali parti e in tali limiti,
correttamente se ne è tenuto conto ai fini della verifica del rispetto della
norma di cui si discute, anche tali ambienti essendo funzionalmente connaturati
allo svolgimento dell'attività produttiva, con il conseguente potenziale
aggravamento antropico.
4) - L'originario ricorso appare, quindi,
infondato e va respinto, con assorbimento delle ulteriori censure; deve, per
l'effetto, essere rigettato l'appello in epigrafe e confermata, con diversa
motivazione, l'impugnata sentenza.
Le spese del grado possono essere integralmente compensate tra le parti.
il Consiglio di Stato, Sezione Quinta, rigetta
l'appello in epigrafe.
Spese del grado compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.