AFFARI ISTITUZIONALI - 026
T.A.R. Lombardia, Milano, sezione III, Brescia, 28 febbraio 2002, n. 868
Compete al Consiglio regionale e non alla Giunta regionale l'approvazione del regolamento di attuazione della legge regionale n. 14 del 1999 in materia di disciplina del commercio -  Annullata la deliberazione della Giunta regionale n. VII/308 del 7 luglio 2000 (approvazione del regolamento 21 luglio 2000, n. 3, per il settore del commercio)
(sospesa dal Consiglio di Stato)

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
Sezione III
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n. 4494/2000 R.g.  proposto da Benigni Giuseppe e Danuvola Paolo, elettivamente domiciliati in Milano, Galleria San Babila, 4/A, presso lo studio dell'avv. Mario Viviani, che li rappresenta e li difende in virtù di procura in calce al ricorso

contro

la Regione Lombardia, in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa, come da procura in calce alla copia notificata del ricorso, dagli avv.ti Alberto Colombo, Antonella Forloni e Annamaria Rapetti, elettivamente domiciliata in Milano, via F. Filzi, 22, presso gli uffici dell'Avvocatura regionale

per l'annullamento

della deliberazione della Giunta regionale n. 7/308 del 7 luglio 2000 e del "Regolamento di attuazione della legge regionale 23 luglio 1999, n. 14, per il settore del commercio", con la deliberazione stessa approvato e pubblicato sul B.U.R.L. del 25 luglio 2000, 2° supplemento ordinario al n. 30, nonché di ogni altro atto rispetto ad essi preordinato, connesso o conseguente.

Visto il ricorso n. 4494/2000 con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della resistente;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
uditi alla pubblica udienza del 22 novembre 2001, relatore il dott. Mario Alberto di Nezza, i procuratori delle parti come da verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO

Con ricorso notificato alla Regione Lombardia in data 8.11.2000 e depositato il 14.11.2000, i ricorrenti indicati in epigrafe, premettendo di essere consiglieri comunali in carica, chiedevano l 'annullamento del "Regolamento" approvato con deliberazione n. 7/308 del 7 luglio 2000 e pubblicato sul B.U.R.L. del 25 luglio 2000, con cui la Giunta regionale lombarda aveva dato attuazione alla legge regionale Lombardia 23 luglio 1999, n. 14, a sua volta promulgata per introdurre, in conformità al d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114, la nuova disciplina regionale del settore del commercio.

I ricorrenti si dolevano del mancato coinvolgimento del Consiglio regionale nella procedura di approvazione dell'atto in questione, secondo quanto previsto dalla sopradetta legge regionale, e della conseguente lesione delle prerogative dei singoli consiglieri: la potestà in concreto esercitata dalla Giunta dell'ente territoriale non era, a loro dire, supportata da alcuna fonte normativa di rango sovraordinato, non essendo possibile riferirsi  né al novellato art. 121 Cost., né allo Statuto della Regione Lombardia, né, infine, alla legge regionale n. 14/1999. I ricorrenti denunciavano, cioè, l'illegittimità dell'esercizio da parte della Giunta regionale della potestà programmatoria in materia, attribuita esclusivamente al Consiglio, a prescindere, peraltro, dalla natura (se di atto di programmazione o di atto regolamentare) del provvedimento impugnato.

Si costituiva in giudizio la Regione Lombardia che confutava genericamente le avverse doglianze.

Nelle memorie depositate in vista dell'udienza di merito, l'amministrazione resistente, richiamata la modifica dell'art. 121 Cost. ad opera della legge costituzionale n. 1 del 22 novembre 1999, asseriva che al Consiglio era rimasta esclusivamente potestà legislativa, spettando, di contro, alla Giunta regionale, e cioè all'esecutivo dell'ente, tutta l'attività non attinente a detta funzione. Sosteneva, in particolare, come la modifica costituzionale avesse comportato la necessità di una rilettura nel senso appena esposto sia delle norme statutarie sia della l.r. n. 14/1999, dovendosi parimenti ritenere che l'iniziativa dei ricorrenti, volta piuttosto a sollevare una questione di carattere politico-istituzionale, non potesse trovare ingresso in un giudizio amministrativo.

All'esito della discussione, svoltasi all'udienza di merito del 22 novembre 2001, la causa veniva trattenuta per la decisione.

DIRITTO

1. Con deliberazione n. 7/308 del 7 luglio 2000 la Giunta regionale della Lombardia ha approvato il "Regolamento di attuazione della legge regionale 23 luglio 1999 n. 14 per il settore del commercio", regolamento successivamente emanato dal Presidente della Giunta in data 21 luglio 2000 (assumendo il numero 3) e pubblicato sul B.U.R.L. 2° supplemento ordinario al n. 30del 25 luglio 2000.

Nelle premesse di tale deliberazione la Giunta regionale, dato atto sia di aver trasmesso al Consiglio regionale, con deliberazione del 19.11.99 attuativa dell'art. 3, comma 1, della l.r. n. 14/1999 cit., ai fini dell'approvazione, "il primo programma concernente gli indirizzi generali per l'insediamento delle attività commerciali ... e i criteri di programmazione urbanistica del settore commerciale" , sia dell'interruzione del procedimento a seguito della conclusione della VI legislatura, ha infine approvato il sopradetto "Regolamento", assumendo che la nuova formulazione dell'art. 121 Cost., risultante dalla novella dell'art. 1, 1° comma, lett. a), della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, avesse comportato l'attribuzione alla giunta stessa "della generalità della potestà normativa di rango secondario rientrante nelle competenze regionali".

I ricorrenti, che hanno impugnato la deliberazione della Giunta n. 7/308 del 2000 a dichiarata tutela dalla propria (incontestata) posizione di consiglieri regionali, si dolgono dell'illegittimità del provvedimento di approvazione dell'atto, asseritamente viziato da incompetenza, in quanto assunto dalla Giunta regionale invece che dal Consiglio dell'ente territoriale, secondo quanto positivamente previsto dalla riferita legge regionale n. 14/1999 e dallo Statuto della Regione Lombardia.

2. Occorre preliminarmente affrontare la questione dell'ammissibilità del ricorso, implicitamente sollevata dall'amministrazione resistente - sotto il profilo dell'interesse ad agire - allorquando, nel qualificare come "politico-istituzionale" la vicenda portata all'attenzione del Tribunale, ha sostenuto che essa avrebbe dovuto esser dibattuta, piuttosto che in sede giudiziaria, innanzi all'assemblea consiliare o alle commissioni attraverso cui opera il Consiglio regionale (v. le memorie di merito).

L'eccezione va disattesa.

Il Collegio osserva al riguardo che l'interesse a ricorrere, consistente nel bisogno di tutela giurisdizionale insorto a seguito della asserita lesione di una posizione soggettiva di vantaggio, costituisce una condizione della domanda, la cui insussistenza comporta l'inammissibilità dell'azione giurisdizionale. Secondo il pacifico orientamento di dottrina e giurisprudenza, l'interesse a ricorrere si può identificare attraverso i due elementi della concretezza e attualità della lesione denunziata nonché nell'utilità derivante dall'ottenimento di una pronuncia favorevole nel merito. La rilevata insussistenza dell'uno o dell'altro di tali elementi comporta l'inammissibilità del ricorso, non essendo possibile, nel processo amministrativo di impugnazione esperire azioni per conseguire un vantaggio potenziale.

Orbene, premesso che nel caso di specie il ricorso è stato proposto da due consiglieri regionali del presupposto che con l'emanazione del provvedimento impugnato siano state lese le competenze del Consiglio regionale da parte della Giunta, il Collegio ritiene di aderire all'orientamento già espresso in materia analoga da questo Tribunale, secondo cui, nel rapporto tra consiglio comunale e sindaco, va ritenuta ammissibile l'impugnativa rivolta ad atti di altro organo al quale si rimprovera di aver usurpato i poteri dell'organo consiliare, atteso che il gravame rappresenta l'unica possibilità per i consiglieri di veder accertata l'asserita violazione. In tale situazione i consiglieri non assumono, infatti, la veste di quivis de populo, perché rispetto alle pretese lesioni dei poteri dell'organo collegiale essi sono investiti di un interesse qualificato. Nemmeno sussiste la tradizionale preclusione, che generalmente si ravvisa nei conflitti tra organi, in base alla quale unico soggetto legittimato a invocare la tutela è l'organo nel suo complesso, non sussistendo alcuna legittimazione concorrente di uno (o di alcuni) dei suoi componenti. Si è però correttamente considerato, al riguardo, che "l'investitura democratica, cioè a suffragio, di un ufficio pubblico nell'ambito di un organo collegiale consente ad ognuno degli eletti la tutela delle prerogative proprie dell'organo", riconoscendosi, in sostanza, che la spettanza di dette prerogative "è il presupposto n base al quale può realizzarsi il mandato elettivo ricevuto" (così T.A.R. Lombardia, Milano, 2 aprile 1993, n. 261; v. anche, sempre di questo Tribunale, la sentenza 28 giugno 1996, n. 884, secondo cui i consiglieri comunali sono legittimati a proporre ricorso giurisdizionale per reclamare competenze del Consiglio in materie che essi assumono essere state illegittimamente disciplinate da altri organi comunali).

3.1. Nel merito, il Collegio osserva che la soluzione dell'odierna controversia risiede nell'accertamento relativo alla portata della modifica dell'art. 121 della Costituzione operata dalla legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, che secondo l'amministrazione regionale, nel presupposto della natura regolamentare dell'atto impugnato, avrebbe comportato una sostanziale innovazione nell'assetto delle competenze degli organi di governo della regione.

La tesi della parte pubblica non merita condivisione.

Com'è noto, la legge costituzionale n. 1 del 1999 (recante "disposizioni concernenti l'elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l'autonomia statutaria delle Regioni"), ispirandosi al rafforzamento del sistema delle autonomie territoriali e al correlativo depotenziamento del centralismo che ha costituito una nota distintiva dell'ordinamento italiano post-unitario, ha modificato, per quel che qui interessa, l'art. 121 Cost. stabilendo, da un lato, che "il Consiglio regionale esercita le potestà legislative attribuite alla Regione" (2° comma; la disposizione novellata stabiliva che il Consiglio esercitasse "le potestà legislative e regolamentari attribuite alla Regione") e, dall'altro, che "il Presidente della Giunta ... promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali" (art. 121 cit., ultimo comma; la disposizione previgente sanciva che il Presidente promulgasse "le leggi ed i regolamenti regionali"). La riforma si è sostanziata, sotto questo profilo, nella soppressione delle parole "e regolamentari" nel testo dell'art. 121 e nella precisazione che il Presidente della Giunta non promulga ma "emana" i regolamenti regionali (cfr. art. 1, legge cost. n. 1/99).

Secondo un orientamento espresso in dottrina, palesato anche in sede istituzionale (sia nel parere 15.3.2000 della Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento affari regionali, sia nel corso della seduta tenutasi il 16.3.2000 della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Provincie autonome di Trento e Bolzano, secondo quanto ricordato dalla parte pubblica), l'innovazione introdotta consentirebbe di ritenere intestato alla Giunta regionale il potere regolamentare già del Consiglio, dal momento che la novella avrebbe inteso qualificate il Consiglio stesso come assemblea legislativa e la Giunta come l'esecutivo della Regione, sull'esempio di quanto disposto per lo Stato, distinguendo, più nettamente che nel passato, in ambito regionale, la funzione legislativa da quella regolamentare.

Sulla base di questa tesi, l'amministrazione resistente ha sostenuto le necessità di una rilettura, alla luce della nuova disciplina costituzionale, dello Statuto della Regione Lombardia, approvato con legge 22 maggio 1971, n. 339, e della legge regionale n. 14/1999, di talché, in forza del sistema delle fonti e del principio della successione delle leggi nel tempio, l'esercizio dell'attività esecutiva prevista dall'art. 3 della l.r. n. 14/99 sarebbe ormai di spettanza della Giunta regionale.

Ad avviso del Collegio, tuttavia, l'opinione appena riportata, per quanto basata su autorevoli riferimenti, non pare del tutto in linea con le regole che presiedono al sistema delle fonti dell'ordinamento giuridico italiano, fondato, com'è noto, sul principio di tassatività delle fonti normative primarie e, per le fonti di rango secondario, su quello di legalità.

In disparte i complessi problemi riguardanti la materia dei regolamenti intesi quali atti tipici di normazione secondaria, problemi che si pongono in  termini non dissimili per lo Stato e per le Regioni (non è ancora pacifico, ad esempio, il fondamento costituzionale della potestà regolamentare, non esistendo una statuizione idonea ad assurgere, in modo  incontrovertibile, a norma istitutiva della fonte di produzione in questione, e sono parimenti assai discussi gli indici proposti per distinguere gli atti normativi di rango secondario dagli atti amministrativi generali), il Collegio riconosce che in linea di principio si può certamente condividere la tesi in disamina nella parte in cui evidenzia il tendenziale parallelismo istituito dalla legge di modifica costituzionale tra gli organi legislativi e quelli esecutivi di Stato e Regione.

La ratio della novella risiede, infatti, nella più chiara definizione dei compiti e del ruolo assunto dal Consiglio, organo assembleare dotato di diretta investitura popolare, intestatario di funzioni essenzialmente legislative, e dalla Giunta, "organo esecutivo" dell'ente (art. 121, 3° comma, Cost.), chiamato a esprimere, sotto la direzione del suo Presidente, una vera e propria "politica" (recte: indirizzo politico) regionale (cfr. art. 121, 4° comma, Cost).

In quest'ottica, è evidente che il legislatore costituzionale abbia preso atto, quanto al sistema delle fonti, di un dato costantemente rimarcato dai cultori del diritto regionale, i quali per un verso hanno ripetutamente evidenziato come l'attribuzione al Consiglio regionale in via esclusiva della duplice potestà legislativa e regolamentare non avesse permesso la piena esplicazione della normazione di fonte amministrativa, essendo incentrato il procedimento di formazione dei regolamenti sull'adozione di formali deliberazioni dell'assemblea, e , per altro verso, hanno censurato l'anomalia dell'attribuzione in capo all'organo di diretta in investitura popolare di un potere generalmente assegnato ai titolari della funzione esecutiva.

Pertanto, attesa la sicura connessione tra il sistema delle fonti e la forma di governo regionale, rimarcata da un'attenta dottrina, il rafforzamento dell'esecutivo dell'ente regionale (salve, naturalmente, le facoltà per gli statuti di fissare una forma di governo difforme da quella disegnata dal legislatore nel 1999) non poteva che passare anche attraverso la possibilità di un alleggerimento delle attività normative dell'assemblea elettiva, titolare dell'attribuzione di operare le scelte fondamentali della collettività amministrata, con correlativa assegnazione all'esecutivo dell'ente del compito di sviluppare dette scelte. Ciò, peraltro, in armonia con la tradizione ordinamentale italiana, in cui non si è mai dubitato della titolarità di poteri normativi in capo all'esecutivo, pur rinvenendosene il fondamento in elementi impliciti e pertanto non sempre univoci (si è ritenuto, infatti, che il potere di provvedere per il caso concreto, che è l'essenza dell'amministrare, comprendesse, anche a prescindere da una attribuzione fondata nel diritto positivo, il potere di disporre per una serie generali di casi indeterminati e indeterminabili, che è l'essenza del produrre norme giuridiche).

Le considerazioni appena svolte non consentono, però, alla luce di una lettura più attenta a dati giuridici di sistema, di interpretare la disposizione relativa all'allocazione della potestà normativa regolamentare nel senso in questa sede prospettato dalla difesa di parte pubblica.

L'esame della lettera della modifica costituzionale convince del fatto che la soppressione dell'inciso "e regolamentari" nella disposizione dell'art. 121 Cost. e la specificazione che il Presidente dell'ente ha il potere di "emanare", anziché di promulgare, i regolamenti regionali costituiscono elementi sicuri nel senso di ritenere intervenuta solamente l'abolizione della riserva di potestà regolamentare  in capo al Consiglio regionale. Le modifica, che si caratterizza dunque per un aspetto negativo dal momento che rimuove un  previgente limite costituzionale, nel suo significato immediato certamente riserva al Consiglio la potestà legislativa dell'ente regionale e certamente consente che l'esecutivo regionale eserciti quell'attività normativa di svolgimento della legislazione che sotto l'impero del vecchio art. 121 gli era preclusa (ancorché con dubbi in dottrina circa la sussistenza di un implicito potere regolamentare delle giunte regionali).

Ma soltanto a condizione di operare un salto logico essa può essere intesa nel senso di farne derivare, in positivo, la diretta intestazione all'esecutivo regionale del potere regolamentare.
Il vero è che la norma non prende posizione in materia, lasciando libera ciascuna Regione di individuare, nell'esercizio delle sue prerogative di autonomia costituzionalmente garantita, l'organo titolare della funzione regolamentare.

Sul piano testuale, la tesi suffragata sia dall'art. 121, 2° comma, Cost. (nella nuova formulazione), che nell'elencare le funzioni del Consiglio affianca alle potestà legislative "le altre funzioni conferitegli dalla Costituzione e dalle leggi", e non si ve de perché tra dette funzioni non possa esser ricompresa anche quella di procedere ad una normazione di carattere secondario, sia, a contrario, della mancata previsione dell'esplicita attribuzione della potestà regolamentare in capo alla Giunta.

Paiono confortare, ancora, tale opinione i lavori parlamentari (sia pure con elementi di incertezza), dai quali si evince come in effetti si optò per la semplice sottrazione al Consiglio della potestà regolamentare avendo ben presente il problema della successiva allocazione di detta potestà, giustamente riservata a quella autonomia regionale che il sistema tende a maggiormente potenziare (v., in particolare, gli interventi alla seduta del 14 luglio 1999 presso la Commissione affari costituzionali della Camera dei Deputati).

Va infine considerato che in materia di fondi normative secondarie vige, come s'è detto, il principio di legalità: il potere di emanare norme giuridiche di rango secondario, anch'esse innovative dell'ordinamento, abbisogna di copertura legislativa, occorrendo all'uopo un'apposita interpositio legislatoris. Non serve soffermarsi su tale pacifico principio. Quel che preme evidenziare è che è necessaria l'intermediazione legislativa per fornire una base giuridica alla normazione sub-primaria, non solo sotto il profilo della capacità di porre in essere norme giuridiche, ma anche sotto il più concreto profilo del procedimento per l'adozione dell'atto. Non  pare dubbio, infatti, come rilevato da attenta dottrina, che la peculiarità del regolamento amministrativo, quale atto formalmente amministrativo ma sostanzialmente normativo, renda indispensabile una espressa disciplina del procedimento preordinato alla sua emanazione. Ne segue che alla tesi dell'automatico trasferimento alla Giunta del potere in esame si oppone anche l'assenza di statuizioni sul procedimento relativo alla formazione di atti regolamentari, potendosi addirittura discutere se nell'ambito dell'esecutivo possano darsi, accanto a regolamenti collegiali, assunti cioè dall'intera Giunta (ipotesi che non desta contrasti), anche regolamenti adottati da organi monocratici (si pensi ad ipotetici regolamenti del Presidente della Giunta oppure, ma con molti più dubbi, dei singoli assessori).

Conseguenza, forse formalistica ma non per questo meno esatta, dell'impostazione qui sostenuta (e unica controindicazione all'accoglimento della tesi), è che gli statuti o le leggi regionali potrebbero prevedere, in lacune materie, vere e proprie riserve di regolamento consiliare (laddove si ritenesse derogabile il principio della necessarietà della legge regionale) o potrebbero addirittura non recare alcun a innovazione al sistema previgente, lasciando intatta la competenza normativa regolamentare del Consiglio, anche a detrimento di esigenze di snellezza dell'attività amministrativa. Il punto è controverso. In questa sede mette unicamente conto ricordare che non si rinvengono principio che impongano alle Regioni di ripetere schemi istituzionali adottati in sede statale e che sarebbero pertanto riduttivi dell'autonomia delle Regioni stesse.

E' certo comunque che l'individuazione dell'organo titolare del potere regolamentare e, soprattutto, delle materie da disciplinare con atti legislativi o con atti regolamentari spiega evidenti effetti non tanto nell'ambito del rapporto giunta - consiglio, quanto nell'ambito del rapporto maggioranza - opposizione. L'adozione di un provvedimento regolamentare da parte del Consiglio comporta. com'è ovvio,  che la minoranza assembleare sia posta in condizione di interloquire con la maggioranza sulle scelte normative proposte per la deliberazione, dal momento che il testo da approvare viene assoggettato al dibattito tipico delle assemblee legislative, con i connessi poteri dei rappresentanti della minoranza di esercitare nel modo più esteso le loro prerogative istituzionali. Cosa che, evidentemente, non accade, o tutt'al più accade ex post, per gli atti della Giunta.

Sotto il diverso profilo del soggetto titolare del potere di allocare la competenza regolamentare, non pare revocabile in dubbio che il compito spetti al Consiglio, che può procedervi o attraverso una previsione statutaria (lo statuto, ai sensi dell'art. 123 Cost. , "determina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento" della Regione, e ciò impone di fare attraverso una procedura di approvazione rinforzata, con conseguente primazia dello statuto nel sistema delle fonti delle regioni a statuto ordinario) o anche (deve presumersi, ma il punto è controverso) attraverso l'emanazione di una norma di legge regionale, al pari di quanto è avvenuto per lo Stato con l'adozione della legge n. 400/98.

3.2. Le conclusioni sopra riportate consentono di affermare che la novella costituzionale in disamina non esplica un'efficacia diretta sui provvedimenti di rango legislativo che, sotto l'impero delle disposizioni previgenti, assegnavano compiti regolamentari al Consiglio regionale. Le leggi che prevedono interventi normativi del Consiglio non sono perciò incompatibili con il regime dettato dall'art. 121 Cost. novellato, e di esse non può certo presumersi intervenuta un'abrogazione tacita per incompatibilità sopravvenuta, come opinato dall'amministrazione resistente.

Del resto, in linea teorica la tesi dell'abrogazione tacita di una legge per illegittimità costituzionale sopravvenuta non regge a un più attento esame, giacché la giurisprudenza della Corte costituzionale ritiene che per accertare detta incompatibilità, concretantesi in incostituzionalità sopravvenuta, occorra (quando il contrasto tra norma superiore sopravvenuta e norma inferiore previgente non sia pacifico e indubitabile) una pronuncia espressa del Giudice delle leggi, mentre nelle specie non sussistono, per quanto sin qui osservato, i presupposti per ritenere non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale delle norme regionali che hanno attribuito al Consiglio regionale il potere di emanare l'atto impugnato.

3.3.  Le opinioni sin qui esposte non paiono smentite dalla disciplina da ultimo introdotta con legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante "Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione". Questo provvedimento che - allo stato - rappresenta il più consistente intervento sulla forma dell'ordinamento repubblicano, ormai ispirato al principio di sussidiarietà, ha inciso oltre che sul riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni anche sulle correlative potestà regolamentari.

Il nuovo testo dell'articolo 117, 6° comma, Cost. sancisce, infatti, che "La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia".

La disposizione mostra come ormai la produzione di norme secondarie competa in linea di massima alle Regioni,m che nel nuovo assetto costituzionale4 diventano gli enti tendenzialmente deputati allo sviluppo della legislazione repubblicana, promani essa indifferentemente dai Consigli regionali o dal Parlamento (a quest'ultimo sono riservate le materie di cui all'art. 117, 2° comma, Cost.; in tal caso, però, la potestà regolamentare richiede il conferimento di apposita delega). Diviene , dunque, vieppiù rilevante stabilire nel modo meno equivoco possibile (cioè attraverso apposite statuizioni formali) chi sia il titolare della funzione regolamentare all'interno delle istituzioni regionali.

3.4. Chiariti tali punti, è evidente come sia da escludere una "rilettura" dello Statuto lombardo e della legge regionale n. 14/1999 nei sensi ipotizzati dall'amministrazione resistente.

Con l'atto in esame la Giunta regionale, completando la riforma del settore del commercio voluta dal legislatore nazionale con la legge di delegazione 15 marzo 1997, n. 59 (art. 4, comma 4), attuata con il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114, e concretizzata, nella regione Lombardia con legge regionale n. 14/1999, ha proceduto a una serie di adempimenti necessari per l'effettiva applicazione delle nuove disposizioni, ispirate ai principio di liberalizzazione e trasparenza del mercato e incentrate sull'integrazione di pianificazione territoriale e programmazione commerciale.

L'articolo 3 della legge regionale in esame, rubricato "programmazione regionale" prevede, al 1° comma, che "Il Consiglio regionale, su proposta della Giunta, approva: a) il programma triennale concernente gli indirizzi generali per l’insediamento delle attività commerciali; b) i criteri di programmazione urbanistica del settore commerciale", specifica, di seguito, il contenuto sia del programma triennale sia dei criteri di programmazione (2° e 3° comma); assegna alla Giunta regionale il compito di provvedere "all'aggiornamento ai valori dell'offerta e della domanda".

Emerge dunque che in subiecta materia il legislatore regionale ha conferito alla Giunta il potere di iniziativa e al Consiglio quello di approvazione, seguendo linee pienamente conformi anche al dettato dello Statuto regionale, approvato con la legge 22 maggio 1972, n. 339.

Ed infatti, secondo l'art. 6 dello Statuto non solo "Il Consiglio regionale ... esercita le potestà legislative e regolamentari attribuite o delegate alla Regione (1° comma), ma, in materia di programmazione, "determina gli indirizzi della programmazione regionale: partecipa, anche mediante le proprie commissioni, all'elaborazione dei piani e programmi, generali e settoriali, della Regione; approva i piani e programmi medesimi, nonché i relativi aggiornamenti e variazioni, e ne controlla l'attuazione" (2° comma). Ai sensi dell'art. 21, invece, la Giunta regionale esercita "le funzioni conferitele dalla Costituzione, dal presente statuto e dalle leggi" spettandole, in particolare, i compiti di "dare, ove occorra, esecuzione ai provvedimenti del Consiglio" (n. 1) nonché di "predisporre, in collaborazione con le competenti commissioni consiliari, i programmi e piani della Regione, e [di] curarne l'attuazione" (n. 3). Lo Statuto chiarisce, ancora, nella sezione dedicata all'attività normativa, che "l'esercizio della potestà legislativa e regolamentare spetta al Consiglio regionale e non può essere delegato" (art. 37), definendo nel contempo le modalità procedimentali preordinate all'adozione dei regolamenti (art. 44).

Alla luce del chiaro disposto delle fonti sopraddette, non vi è, ad avviso del Collegio, alcuno spazio per riconoscere in capo alla Giunta regionale la titolarità di "approvare" il "programma triennale" su cui si controverte, ancorché formalmente definito "regolamento" (a prescindere dal nomen juris adottato, effettivamente sussiste coincidenza delle materie trattate dal Regolamento impugnato con quelle elencate nell'art. 3 l.r. n. 14/99, così come asserito dai ricorrenti e come non contestato dall'amministrazione resistente).

3.5. Va svolta un'ultima considerazione proprio sulla natura dell'atto impugnato, espressamente qualificato dalla Regione quale "regolamento".

Ad avviso del Collegio, infatti, sia che si tratti di provvedimento normativo (come sembra comprovato dal nomen juris, dalla pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della regione e dall'avvenuta sottoposizione al controllo della Commissione statale di controllo sugli atti amministrativi regionali) sia che si tratti di provvedimento avente nella sostanza natura e finalità programmatorie ("atto di programmazione", secondo la dizione dell'art. 13, legge 7 agosto 1990, n. 241), non pare comunque revocabile in dubbio che dovesse essere il Consiglio regionale l'organo competente ad emetterlo, tanto ai sensi della riferita legge regionale n. 14/99 quanto ai sensi dello Statuto.

3.6. In conclusione, l'impugnata deliberazione di Giunta regionale n. VII/308 del 7 luglio 2000, approvativa del "Regolamento di attuazione della L.R. 23 luglio 1999, n. 14 per il settore del commercio", è affetta da incompetenza, spettando il relativo potere, per quanto sin qui osservato, all'organo consiliare.

Detta deliberazione va pertanto annullata, rimanendo salvi gli ulteriori provvedimenti dell'autorità competente.

4. Sussistono giusti motivi per compensare integralmente le spese di lite tra le parti.

P.Q.M.

il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sezione III, definitivamente pronunciando, così provvede:

1. Accoglie il ricorso e, per l'effetto, annulla la deliberazione della Giunta della Regione Lombardia n. VII/308 del 7 luglio 2000, approvativa del "Regolamento di attuazione della L.R. 23 luglio 1999, n. 14 per il settore del commercio";
2. dichiara integralmente compensate le spese di lite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Milano, nella camera di consiglio del 22 novembre 2001, con l'intervento dei seguenti magistrati:

Ezio Maria Barbieri, presidente
Solveig Cogliani, referendario
Mario Alberto di Nezza, referendario estensore.