AFFARI ISTITUZIONALI - 004

ARRICCHIMENTO SENZA CAUSA E ASSENZA DI IMPEGNI DI SPESA
Debiti assunti senza preventivo impegno in violazione dell'art. 35 del d.lgs. n. 77 del 1995 - Azioni di indebito arricchimento (art. 2041 c.c.) - Limiti - Nullità dei rapporti contrattuali - Responsabilità soggettive (vedi Nota)

Dopo l'introduzione dell'articolo 23, quarto comma, del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66, convertito dalla legge 24 aprile 1989, n. 144, sono stati numerosi i casi, approdati al vaglio dell'autorità giudiziaria, nei quali un’amministrazione locale è stata chiamata a rispondere di debiti assunti in violazione della predetta norma (ora abrogata, ma riproposta negli stesis termini, almeno per quanto qui interessa, dall'articolo 35 del decreto legislativo 25 febbraio 1995, n. 77), che regola i rapporti negoziali dell'ente, attraverso un procedimento tipico e formalizzato in atti di evidenza pubblica.
L'abnorme accrescimento delle competenze (ancora in fase espansiva dopo le riforme cossidette "Bassanini" e i provvedimenti attuativi delle stesse), la continua urgenza degli adempimenti contingenti e di routine, che impediscono l'aggiornamento professionale, ha contribuito alla notevole diffuzione di dover acquisire forniture e servizi e, soprattutto, eseguire lavori, con tempestività e con prassi non sempre conciliabili con i procedimenti tipici previsti dall'ordinamento.
Colpevole di questa situazione anche la estesa insensibilità degli amministratori locali che danno sempre per scontata la preparazione dei propri dipendenti e "dovuta automaticamente" una risposta degli stessi ad ogni domanda; ma non si capisce come si possa pretendere da questi funzionari, anche dove siano volenterosi e capaci (e retribuiti in misura vergognosamente inadeguata), una puntuale e precisa adesione alle innovazioni normative, quando a loro non è concessa fisicamente l'opportunità di conoscere la novità.
Il punto dolente era spesso l'esecuzione di una fornitura, di un servizio o di un lavoro, in assenza di preventivo atto dispositivo da parte dell'ente. In questi casi la difesa dell'ente, chiamato in giudizio a corrispondere il dovuto per la prestazione effettuata a suo favore, in genere eccepiva l’assoluto insanabile difetto di legittimazione processuale della P.A. convenuta, ossia la sua totale estraneità al rapporto obbligatorio invocato dal fornitore o prestatore. Questo ancora prima dell'introduzione dell'articolo 23, del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66, convertito dalla legge 24 aprile 1989, n. 144.

Dal punto di vista processuale, in applicazione dell'articolo 101 del codice di proceura civile, doveva essere rispettato il principio del contraddittorio, formalmente ma anche sotto l'’aspetto sostanziale prevede: il giudice non può giudicare se non è citata la «giusta parte», l’unica titolare dell’interesse a resistere sul merito della questione controversa e dibattuta.

E' inoltre noto che i contratti in cui è parte la P.A. sono negozi solenni per i quali è richiesta la forma scritta obbligatoria ai fini della salvaguardia degli interessi della stesa P.A. e di un efficace controllo della spesa pubblica. Tale forma scritta è peraltro prescritta da diverse norme dell'ordinamento amministrativo.

La Corte di cassazione, sul punto, ha fatto se seguenti affermazioni (in modo pressoché costante) di principio:

1)- per integrare il requisito documentale, pur potendosi derogare all’unicità del documento o alla contestualità delle dichiarazioni, occorre pur sempre un atto formale scritto, costituente la prova storico documentale della formazione e perfezionamento del negozio, soggetto al controllo di efficacia dell’organo di controllo, come si evince dagli art. 45 e seg. del regolamento di esecuzione della legge sulla contabilità dello Stato e della normativa in tema di autonomie locali;
2)- per tali negozi non è possibile scindere la conclusione (perfezionamento sostanziale) dalla stipulazione (regolarizzazione formale);
3)- la forma scritta richiesta ad substantiam non può essere sostituita da alcun’altra estrinsecazione della volontà negoziale, nè da fatti o atti concludenti, pure emessi da Organi in astratto competenti ad esprimere la volontà dell’Ente.
4)- neppure la delibera con cui l’ente decide di addivenire alla stipula di un contratto anche se jure privatorum, può costituire proposta rivolta al privato.

Infatti la deliberazione autorizzativa alla conclusione del negozio costituisce atto interno meramente preparatorio, mentre per la perfezione del negozio occorre la successiva estrinsecazione della volontà dell’Ente ad opera dell’Organo che la rappresenta nei confronti della controparte, nonchè l’accettazione di quest’ultima nella forme di legge.

Quand’anche si volesse attribuire una qualche valenza giuridica ad eventuali ordinativi provenienti da soggetti non aventi un legittimo potere di rappresentanza contrattuale dell'ente locale, allora nella migliore delle ipotesi, in applicazione dell’art. 1398 c.c. si potrebbe caso mai parlare di esistenza o meno di un contratto concluso ad opera di un rappresentante senza potere e in quanto tale responsabile personalmente del danno che il terzo contraente prova di aver sofferto per avere confidato, senza colpa, nella validità del contratto; contratto il quale sarebbe comunque inefficace e fors'anche tamquam non esset per l’ente, in assenza di ratifica o altro riconoscimento esplicito, formale e tipico, come previsto dall'ordinamento per i contratti "preventivi" alla prestazione o al lavoro.

Sulla base di queste considerazioni ostative, ai potenziali creditori non restava altra via che invocare in giudizio l’art. 2041 del codice civile che prevede l’obbligo di corrispondere un indennizzo a carico di colui che si è arricchito ai danni di altro soggetto; tale indennizzo dev'essere pari alla relativa diminuzione patrimoniale del preteso creditore, con il limite invalicabile dell’arricchimento conseguito e del quale dev'essere fornita prova.

Si deve osservare che l’azione di indebito arricchimento, proposta nei confronti della P.A. differisce da quella ordinaria nei confronti di soggetti privati, in quanto non è sufficiente il fatto materiale dell’esecuzione di una prestazione vantaggiosa per l’ente pubblico, ma è necessario che quest'ultimo abbia riconosciuto tale utilità con un atto formativo della sua volontà, la quale viene poi attuata dall’organo competente a stipulare formalmemnte il contratto.

Il predett riconoscimento di utilità può essere anche implicito, ma deve essere desumibile solo da comportamenti imputabili non a qualsiasi soggetto che faccia parte della struttura dell’ente, bensì solo a coloro ai quali l'ordinamento ha rimesso la competenza alla formazione della volontà dell’ente stesso. (Cass. civ., II, 11 novembre 1994, n. 9458 ; Cass. civ., II, 17 marzo 1994, n. 2544).

Il riconoscimento dell’utilità dell’opera o della prestazione eseguita dal terzo che costituisce requisito per poter ricorrere all’azione ex art. 2041 c.c. nei confronti della P.A., benchè possa essere implicitamente desumibile dall’utilizzazione dell’opera o della prestazione consapevolmente attuate dai suoi organi rappresentativi, non può essere compiuto dal giudice in sostituzione dell’amministrazione; il giudice infatti può solo essere chiamato ad accertare se ed in quale misura l’opera o la prestazione siano state effettivamente utilizzate dalla P.A. (Cass. civ., Sez. I, 10 dicembre 1994, n. 10567).

Dovrà essere quindi rigettata l’azione di ingiustificato arricchimento qualora manchi la prova che l’ente pubblico beneficiario della prestazione abbia riconosciuto, seppure tacitamente, di avere ricevuto una utilitas (Tribunale di Locri, 14 ottobre 1993 - Cass. civ. n. 2888 del 1991).

Si deve notare, sotto il profilo processuale, che l’azione di indebito arricchimento è spesso intentata a sproposito, e si rivela in molti casi come un tentativo (extrema ratio) alternativo a impugnazioni per motivi diversi o a rimedi tutelati dall'ordinamento in modo tipico e preordinato, prestandosi così a pronunce di inammissibilità o di improponibilità, in quanto promossa tardivamente ovvero al di fuori della sua sede naturale.

Basti pensare al caso, abbastanza frequente, del procedimento monitorio nella quale l'azione è esperita in sede di giudizio di opposizione, quindi con inammissibilità del ricorso all’art. 2041 c.c. invocato da creditore in carenza di accettazione del contraddittorio sulla domanda, da parte della P.A.

La controversia infatti muove da un’opposizione al decreto ingiuntivo che da luogo ad un procedimento cognitivo autonomo, ma pur sempre circoscritto alla valutazione delle posizioni delle parti al momento della emissione del provvedimento monitorio, posizioni che, con la sola eccezione della possibilità per le parti medesime di fornire nuovi elementi di giudizio e ulteriori prove, rimangono processualmente cristallizzate.

Non possono pertanto ammettersi domande nuove che modifichino l’originaria causa petendi, a meno che la controparte accetti il contraddittorio.

Dovrà pertanto il giudice adito verificare che all’atto della emanazione dell’opposto decreto, sussistevano le condizioni richieste dall’art. 633 c.p.c. ovvero che i necessari presupposti originariamente mancanti siano venuti in essere successivamente. La domanda di arricchimento proposta dall’opposto è quindi manifestamente una vera e propria domanda nuova, fondandosi su una causa petendi diversa da quella posta a sostegno dell’originaria pretesa azionata a mezzo dell’opposto decreto ed introduce nella controversia un tema d’indagine completamente nuovo.

Passando all’ipotesi di domanda ex art. 2041 c.c. esperita in corso di causa si deve ugualmente eccepire l’inammisibilità o improponibilità. Malgrado precedenti oscillazioni giurisprudenziali, la Corte di Cassazione, Sez. Un. civili (sentenza n. 4712 del 27 ottobre 1995 - 22 maggio 1996) ha statuito che la domanda di indennizzo per arricchimento senza causa proposta nel corso del processo integra, rispetto a quella di adempimento contrattuale originariamente proposta, una domanda nuova, come tale inammissibile, poichè le due azioni sono diverse sia per la causa petendi (basandosi quest’ultima sull’obbligazione assunta e la seconda sull’assenza di vincolo negoziale) sia per il petitum (avendo l’azione contrattuale per oggetto il pagamento del corrispettivo pattuito e l’azione di ingiustificato arricchimento la corresponsione di un indennizzo equivalente alla diminuzione patrimoniale subita, corrispondente all’arricchimento ingiustificato dell’altro soggetto).

Al fine di superare la difficoltà di riferire il negozio all’ente si è poi cercato di ricondurre la responsabilità dello stesso ente al concetto della culpa in contrahendo. Si deve fare una prima obiezione: il privato che si accinge a contrattare con l’ente non può pretendere il risarcimento (neanche a titolo di culpa in contrahendo) se non ha usato la normale diligenza nell’accertare, in base alle norme di legge, la qualità e la competenza del soggetto con il quale ha trattato, non potendo in tal caso vantare alcun apprezzabile e legittimo affidamento. Ma decidiva è l'osservazione che la responsabilità precontrattuale ricorre quando l'interruzione delle trattative sia priva di ogni ragionevole giustificazione così da sacrificare arbitrariamente il logico affidamento della controparte sulla conclusione del contratto, essendo riconducibile alla più ampia categoria della responsabilità extracontrattuale che riconosce la risarcibilità del danno nei limiti del cosiddetto interesse negativo. L’onere probatorio ex art. 2967 c.c. è quindi a carico di colui che agisce per il risarcimento del danno, della malafede del recedente (Cass. civ., Sez. II, 1 febbraio 1995, n. 1163).

Il quadro sin qui delineato ha subito radicali mutamenti dopo l’introduzione dell’articolo 23, quarto comma, del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66, convertito dalla legge 24 aprile 1989, n. 144, sostituito dall'articolo 35 del decreto legislativo 25 febbraio 1995, n. 77, come modificato dai decreti legislativi 11 giugno 1996, n. 336 e 15 settembre 1997, n. 342.

La nuova norma è stata introdotta per contenere la spesa pubblica e non è stata subito percepita nella sua potenzialità.

Semplificando, la disposizione introduceva la seguenti disciplina:

1)- ai Comuni l’effettuazione di qualsiasi spesa è consentita esclusivamente se sussistono le deliberazioni autorizzative adottate nelle forme di legge e divenute esecutive, nonchè l’impegno contabile registrato dall’Ufficio Ragioneria sul competente capitolo di bilancio di previsione da comunicare ai terzi interessati (Al riguardo si assiste spesso all’effettuazione di prestazioni senza che la P.A. avesse comunicato l’avvenuta esecutività della relativa deliberazione, autorizzativa alla stipula del contratto, venendo quindi meno all’onere di informarsi sulla acquisita esecutività del provvedimento autorizzativo della fornitura);

2)- nel caso in cui vi sia stata l’acquisizione di beni e servizi in violazione delle suddette norme, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per ogni effetto di legge (e quindi anche rispetto ad eventuali pretese di indennizzo di presunti arricchimenti ai sensi dell’art. 2041 c.c.) tra il privato fornitore e l’amministratore o il funzionario che abbiano consentito la fornitura, escludendo ogni rapporto tra il privato fornitore e l'ente. Tale disposizione è divenuta principio contabile di gestione con l'articolo 123, comma 1, lettera n) del decreto legislativo n. 77 del 1995.

Il nuovo ordinamento contabile ribadisce, all'articolo 35, la previsione per la quale le province ed i comuni:

«... possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul competente intervento o capitolo del bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria di cui all'articolo 55, comma 5, della legge 8 giugno 1990, n. 142. Il responsabile del servizio, conseguita l’esecutività del provvedimento di spesa, comunica al terzo interessato l’impegno e la copertura finanziaria, contestualmente all’ordinazione della prestazione, con l’avvertenza che la successiva fattura deve essere completata con gli estremi della suddetta comunicazione. Fermo restando quanto disposto al comma 4, il terzo interessato, in mancanza della comunicazione, ha facoltà di non eseguire la prestazione sino a quando i dati non gli vengono comunicati.
Per le spese previste dai regolamenti economali l'ordinazione fatta a terzi contiene il riferimento agli stessi regolamenti, all'intervento o capitolo di bilancio ed all'impegno.
Per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile, l'ordinazione fatta a terzi è regolarizzata, a pena di decadenza, entro trenta giorni e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente alla regolarizzazione.
Nel caso in cui vi è stata l'acquisizione di beni e servizi in violazione dell'obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi dell’articolo 37, comma 1, lettera e), tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura. Per le esecuzioni reiterate o continuative detto effetto si estende a coloro che hanno reso possibili le singole prestazioni.»

Volendo scoraggiare erogazioni di pubblico denaro contra legem il legislatore ha adottato lo strumento della responsabilità personale di chi ha disposto la spesa.
 
A fronte di una responsabilità diretta del funzionario o dell'amministratore verso il fornitore o il prestatore con esclusione di ogni rapporto obbligatorio tra quest’ultimo e l’ente, resta da esaminare la configurabilità in capo al privato fornitore dell’azione ex art. 2041 c.c. nei confronti della P.A., anche alla luce dello jus superveniens.
La questione, di non trascurabile rilevanza, attiene sostanzialmente alla possibilità giuridica per il prestatore di beni e servizi o per l’esecutore di lavori di somma urgenza di esperire nei confronti del Comune azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c.; attesa la esclusione normativa di rapporto contrattuale diretto con il Comune.
In proposito la Giurisprudenza, è stata alquanto oscillante. In alcuni casi pur negandosi ingresso all’azione contrattuale si è ammessa però l’esperibilità dell’azione residuale di arricchimento.
In altri casi invece si è negato ingresso anche all’azione di indebito ritenendo insussistente il requisito in capo al fornitore della residualità e sussidiarietà dell’azione, ben potendo il creditore aggredire direttamente il patrimonio del funzionario o amministratore che ha ordinato la spesa.
In particolare il giudice civile ha ritenuto infondata la richiesta di pagamento del prezzo di forniture rese in favore dell’Ente al di fuori del rapporto contrattuale, in considerazione pure del carattere formale dei contratti della P.A., ritenendo inoltre inammissibile l’azione di indebito arricchimento ex art. 2041 c.c. in ragione del suo carattere sussidiario che fa si che la stessa possa essere esperita solo quando non sussista altra azione del danneggiato contro il presunto arricchito e non sia neppure sperimentabile l’azione contro persona diversa che sia obbligata per contratto o per legge (Cass. civ., II, 10 febbraio 1993, n. 1686). Nella fattispecie è stato osservato che difetta il requisito della sussidiarietà.
 
La nuova norma, quale applicazione particolare del principio generale di responsabilità dei pubblici funzionari sancito dall’art. 28 Cost. costituisce dunque fonte di obbligazioni dirette tra privato ed organo o pubblico dipendente dovendosi per l’effetto ritenere concessa al primo l’azione nei confronti del secondo per l’adempimento del contratto e restando con ciò esclusa l’esperibilità dell’azione generale di arricchimento.
La Corte dei Conti inizialmente rilevando che l’art. 23 del decreto-legge n. 66 del 1989 comporta, in ipotesi di omessa adozione di delibera autorizzativa e dell’impegno contabile, l’assunzione diretta della conseguente obbligazione a carico dell’amministratore o del funzionario che abbia consentito l’acquisizione di beni e servizi in violazione dell’obbligo, ritenne che il comune non potesse con atto deliberativo emesso in sanatoria ratificare l’acquisto operato personalmente dall’amministratore o dal funzionario.
Pertanto il giudice contabile considerava personalmente responsabili del pagamento (che costituisce danno erariale) gli amministratori comunali che omettevano di opporsi alla relativa richiesta pervenuta dal creditore, nell’ipotesi in cui la spesa di cui veniva chiesto il pagamento fosse stata illegittimamente disposta dovendo essa fare carico all’amministratore o al funzionario che la ordinò.
La norma peralto, in parte, confermava norme generali contenute sia nel testo unico della legge comunale e provinciale approvato con R.D. n. 383 del 1934; già queste norme prevedevano la necessità della delibera autorizzativa e in conformità ai principi generali sulla procedura di spesa l’adozione del previo impegno di spesa.
La disposizione risulta peraltro innovativa laddove disciplina le conseguenze connesse alla situazione patologica determinata dalla omissione degli adempimenti obbligatori sopra descritti. Nè può dirsi che tale interpretazione contrasti con il principio fondamentale in materia negoziale, dell’affidamento del terzo contraente che nel caso di specie si sostanzierebbe nella ragionevole convinzione di contrattare con l’ente. Va in proposito sottolineato che la normativa all’esame pone tra l’altro l’obbligo di comunicare ai terzi interessati l’avvenuto espletamento della procedura tipica per l’ordinazione della spesa: deliberazione autorizzativa - assunzione dell’impegno contabile; con la conseguenza che tale procedura avente anteriormente all’emanazione di detta norma principalmente funzione interna di garanzia del corretto utilizzo delle risorse pubbliche, acquista anche una rilevanza esterna valendo a dimostrare nei confronti dei terzi interessati alla contrattazione che l’ordinazione risale effettivamente alla volontà dell’ente.
La tutela dell’affidamento è in sostanza sufficientemente garantita dalla previsione dell’obbligo di comunicazione, potendo il terzo secondo le regole dell’ordinaria diligenza che lo svolgimento delle relazioni contrattuali richiede, in caso di omessa comunicazione informarsi se gli adempimenti di legge siano stati effettivamente soddisfatti ed astenersi dalla prestazione o dalla fornitura.
E’ stata infatti ritenuta affetta da grave negligenza la condotta del privato il quale ha dato corso alle forniture senza attivarsi al fine di acquisire formali assicurazioni circa la preventiva osservanza delle procedure di legge.
 
Anche per la giurisprudenza amministrativa, inizialmente, l’art. 23 citato ha inteso affermare l'estraneità della pubblica amministrazione alla fornitura effettuata; pertanto, da tale quadro normativo deriverebbe la impossibilità di un implicito riconoscimento dell’utilità che da essa la stessa amministrazione ha potuto ricavare e di una successiva sanatoria che autorizzi ex post la spesa già effettuata e l'inammissibilità dell’azione di arricchimento ex art. 2041 c.c. E' inoltre stata giudicata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 23 citato, sotto il profilo dell’asserita introduzione di una inammissibile ipotesi di responsabilità oggettiva, dal momento che non si tratta di una norma statutiva in materia di responsabilità, ma l’espressione di un principio generale attinente alla nascita di obbligazioni giuridiche, con riferimento ai rapporti intercorrenti fra ente pubblico, suoi agenti (funzionari ed amministratori) e terzi obbligati. (C. Conti, regione Sardegna, Sez. Giurisdiz., 26 febbraio 1994, n. 99).
 
A favore della negazione dell’esperibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento nella suddetta materia, vi sono altre argomentazioni oltre al difetto di residualità della stessa eccepito dalla richiamata giurisprudenza. L’azione di arricchimento introduce un istituto pacificamente inquadrato tra le fonti di obbligazione non contrattuale da atto lecito.
Da quì la sua inapplicabilità alla fattispecie, oggetto di previsione dell’art. 23 citato.
Si rammenta che detto articolo ribadisce con chiarezza l’esclusione di ogni e qualsiasi rapporto obbligatorio (quindi anche per gli effetti di cui all’art. 2041 c.c.) tra privato (fornitore o prestatore) e P.A. Se l’actio de in rem verso sarà ritenuta ammissibile il rigore del legislatore nei riguardi dei debiti fuori bilancio volontari volto a scongiurare spese contra legem, verrà di fatto vanificato esponendo la P.A. a rischi non indifferenti. Infatti attraverso la facile scappatoia dell’art. 2041 c.c. si riprodurranno le stesse anomalie che la normativa sui debiti fuori bilancio ha inteso reprimere: nonc'è dubbio che la sentenza di condanna dell’ente ai sensi dell'art. 2041 c.c., una volta passata in giudicato, farebbe nascere un debito fuori bilancio riconoscibile e il risultato sarebbe la vanificazione della norma contenitrice, essendo l’ente costretto a pagare un debito ab origine non riconoscibile.
L’applicazione non solo formale, ma sostanziale delle nuove regole passa dunque attraverso il diniego dell’azione di arricchimento.
Ciò è tanto più vero ove si consideri che l’art. 2041 c.c., norma ordinaria e non costituzionale, pur mantenendo il suo vigore nei rapporti tra privati, subisce tuttavia una deroga nei rapporti in cui sia parte un ente Locale, per effetto del nuovo complesso normativo incentrato sull’art. 35 del decreto legislativo n. 77 del 1995, che costituisce senz'altro una norma di legge speciale.
Una differente lettura della norma succitata, si porrebbe in evidente contrasto sia con la lettera, che con la stessa ratio della normativa invocata. Nè avrebbe pregio invocare anche sotto il profilo dell’art. 28 Cost. la responsabilità dell’Ente per fatti posti in essere da suoi amministratori in violazione dei diritti altrui.
Perché sussista la diretta responsabilità dell’ente verso terzi, per l’attività colposa o dolosa di pubblici dipendenti è necessaria la riferibilità della detta attività alla P.A., perché diretta al perseguimento dei suoi fini istituzionali, ancorché con abuso di potere.
Tale riferibilità deve essere esclusa, per l’inequivocabile previsione dell’art. 35 citato, in tutti quei casi in cui l’attività dell’amministratore o del funzionario trovi nell’esplicazione della pubblica funzione solo l’occasione del suo manifestarsi per finalità estranee a quelle dell’ufficio (Cass. civ., Sez. I, 7 ottobre 1993, n. 9935).
 
La giurisprudenza più recente, superando il dibattito sulla possibilità giuridica dell’esperibilità o meno dell’azione di arricchimento da parte del fornitore nei confronti della P.A., sembra invero orientarsi nel senso della possibilità per la P.A. di disporre il pagamento nei limiti dell’arricchimento. La stessa Corte dei Conti (Regione Sardegna sent. n. 99 del 1994) ha ammesso la possibilità di far fronte a dette spese, ex art. 2041 c.c., ove previste per legge o connesse a funzioni pubbliche obbligatorie, ovvero la cui utilità sia stata riconosciuta dalla legge in via generale (C. Conti, regione Sardegna, Sez. Giurisdiz., 18 agosto 1994, n. 311).
Una recente sentenza della Sezione Giurisdizionale della Regione Veneto della Corte dei Conti n. 508 del 28 dicembre 1995, ha mostrato maggiore sensibilità alla problematica in argomento, affermando che la portata innovatrice della norma di cui si tratta non può arrivare a escludere la possibilità da parte dell’Amministrazione di assumere mediante sanatoria il debito contratto illegittimamente dal proprio funzionario quando riconosca, anche al di fuori dell’ipotesi di spese obbligatorie, che il bene soddisfa esigenze importanti dell’Amministrazione stessa.
Sulla base di tale considerazione la Corte dei Conti del Veneto ha escluso la responsabilità dei componenti di una Giunta Comunale che mediante l’adozione di una delibera in sanatoria avevano successivamente approvato una spesa per la stampa di volumi d’arte benché la stessa fosse stata irregolarmente impegnata ed ordinata in quanto è stato ritenuto che la spesa sia stata comunque utilizzata dal Comune per soddisfare e conseguire le proprie finalità culturali.
Da ultimo, la sezione giurisdizionale della Corte dei Conti per la Regione siciliana con sent. n. 102 del 94, nonchè la seconda sezione giurisdizionale centrale della Corte dei Conti con sent. n. 73 del 1996 hanno riconosciuto sussistere il requisito dell’utilità ex art. 2041 c.c. anche alla pubblicazione di informazioni riguardanti un ente pubblico territoriale, sull’annuario diocesano da divulgare presso la comunità ecclesiale locale e presso le principali istituzioni civili e religiose regionali e nazionali.
I giudici contabili richiamando la motivazione «finalità pubblica informativa» usata dall'ente locale all’atto dell’inclusione della spesa tra i debiti fuori bilancio, sono pervenuti alla conclusione per la quale l’acquisto delle tre pagine (della pubblicazione religiosa) perseguiva finalità istituzionali, atteso l’evidente scopo di diffondere la conoscenza dei servizi, offerti dall’ente, presso la Comunità religiosa regionale e nazionale.
 
Il giudice contabile, sembra muoversi in linea con i nuovi principi che devono informare l’attività degli enti locali essendo indubbio che nel caso di specie si sia voluto privilegiare l’aspetto sostanziale della questione e quindi il principio della effettività e di efficacia rispetto all’aspetto formale e cioè al principio di mera legalità.
 
Una parola decisiva sembra proprio provenire dalla Corte Costituzionale (sent. n. 446 del 18-24 ottobre 1995), che esaminando la legittimità costituzionale del citato art. 23 ha ritenuto che «...l’Ente, nei limiti del suo arricchimento è tenuto all’indennizzo» ritenendo possibile per il terzo aggredire direttamente l’ente non già con azione contrattuale (esclusa legislativamente) ma utendo iuribus ex art. 2900 c.c. del funzionario. Testualmente: «sussistendo il rapporto contrattuale esclusivamente tra il terzo contraente ed il funzionario che ha autorizzato la spesa, se da una parte è vero che il terzo può jure proprio - esperire l’azione contrattuale solo nei confronti del funzionario per conseguire il corrispettivo della fornitura, è vero anche che quest’ultimo, mentre è esposto a subire nel proprio patrimonio il depauperamento provocato dall’esercizio, nei suoi confronti del diritto dell’altro contraente al conseguimento del prezzo, non ha per contro alcuna specifica azione per rivalersi nei confronti dell’ente nel cui patrimonio si è prodotto l’arricchimento. Da un lato, quindi sussistono in favore del funzionario le condizioni affinché egli possa esercitare l’azione ex art. 2041 c.c. verso l’ente nei limiti dell’arricchimento da questo perseguito, dall’altro, e per conseguenza, il contraente privato è legittimato utendo iuribus del funzionario suo debitore ad agire contro la P.A. - anche contestualmente alla proposizione della domanda per il pagamento del prezzo nei confronti di costui - in via surrogatoria ex art. 2900 c.c. per assicurare che siano soddisfatte o conservate le sue ragioni quando il patrimonio del funzionario non offra adeguata garanzia». Dunque anche ad ammettere che della spesa risponda direttamente il soggetto che l’ha disposta non sembra revocabile in dubbio che questi a sua volta possa agire in via di rivalsa per l’indebito arricchimento conseguito dall’Amministrazione.
Così tracciato il percorso processuale (macchinoso, ma non impossibile) per aggredire direttamente l’ente si può ragionevolmente ipotizzare che nella specie verosimilmente la P.A. sarà chiamata alla fine a rispondere dell’arricchimento conseguito. Pertanto si può agevolmente affermare, confortati dalla più recente giurisprudenza costituzionale, che ben potrebbe l’ente, magari in sede di componimento transattivo (art. 1965 c.c.) liquidare al privato fornitore una somma a titolo di indennizzo secondo i criteri dettati dall’art. 2041 c.c., subordinatamente alla motivata esternazione della valutazione di utilità del servizio reso dal fornitore da parte dei competenti organi dell’Amministrazione.

NOTA
(La materia è stata innovata col decreto legislativo 15 settembre 1997, n. 342, che ha modificato il decreto legislativo 25 febbraio 1995, n. 77, in particolare ha modificato profondamente l'articolo 35
ed ha aggiunto la lettera "e" all'articolo 37, prevedendo la possibilità di sanare i debiti fuori bilancio, per spese effettuate in violazione delle norme senza assunzione di preventivo impegno, «nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza» - A tale scopo si veda la Circolare del Ministero dell'Interno n. 28 del 1997)