AFFARI ISTITUZIONALI - 020
Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, sentenza n. 32947 del 4 settembre 2001
(Presidente: L. Sansone; Relatore: N. Milo)
Commette peculato l'impiegato del Comune che frequentemente utilizza l'utenza telefonica dell'ufficio per effettuare ''conversazioni personali con l'amica dal contenuto erotico-sentimentale''. Se il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, che dispongono per ragione di lavoro dell'utenza telefonica della pubblica amministrazione, la utilizzano per effettuare chiamate di interesse personale, il fatto lesivo si sostanzia non tanto nell'uso dell'apparecchio telefonico quale oggetto fisico, quanto "nell'appropriazione, che attraverso tale uso si consegue, delle energie, entrate a fare parte della sfera di disponibilità della p.a., occorrenti per le conversazioni telefoniche".

REPUBBLICA ITALIANA 
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
Sezione VI  penale

ha pronunciato la seguente sentenza sul ricorso proposto da G.A.M. avverso la sentenza 5.7.2000 della Corte di Appello di Salerno

Fatto e diritto

Avverso la sentenza 5.7.2000 della Corte di Appello di Salerno, che confermava, concedendo anche il beneficio della non menzione, quella in data 3.4.1998 del GUP del Tribunale di Sala Consilina che, all'esito del rito abbreviato, aveva dichiarato G. A. colpevole del reato di cui all'art. 314/2° c.p. e, in concorso delle attenuanti generiche e dell'attenuante del risarcimento del danno, lo aveva condannato alle pene, condizionalmente sospese, di mesi tre di reclusione e dell'interdizione temporanea dal pubblico ufficio, ha proposto, tramite il proprio difensore, ricorso per cassazione l'imputato, deducendo:

1) violazione degli artt. 486 e 487 c.p.p., sotto il profilo che illegittimamente lo si era giudicato in contumacia, nonostante l'allegato e documentato impedimento a comparire all'udienza d'appello, perché impegnato nella commissione di esami di maturità presso l'Istituto Tecnico Commerciale di ...; 
2) violazione degli artt. 62 n. 4, 323 bis c.p. e 53 della legge n. 689/81 e connesso vizio di motivazione, quanto alla mancata concessione delle pur sollecitate attenuanti previste dalle prime due norme e alla mancata sostituzione della pena detentiva.

La difesa dell'imputato ha prodotto memoria datata 6.6.2001, con la quale ha articolato un ulteriore motivo di censura finalizzato a sostenere, attraverso il richiamo di recenti precedenti giurisprudenziali di questa Corte, l'irrilevanza penale del fatto.

All'odierna udienza pubblica, assente il difensore del ricorrente, il P. G. ha concluso come da epigrafe.

Il ricorso è in parte fondato e va accolto nei limiti di seguito precisati.

Non ha pregio la doglianza circa l'asserita irritualità del giudizio contumaciale in appello. Nessuna violazione degli artt . 486 e 487 c.p.p. (rectius art. 484 in relazione agli artt. 420-ter e 420-quater c.p.p) vi è stata, considerando che l'allegato impedimento dell'imputato a comparire correttamente è stato ritenuto non assoluto. Ed invero, la circostanza che il G. fosse stato nominato membro della commissione per gli esami di maturità, che si svolgevano nel periodo 19 giugno-18 luglio 2000, non è di per sé idonea a dimostrare l'impedimento del predetto a comparire all'udienza del 5.7.2000. va aggiunto, peraltro, che, se è vero che la citata commissione opera come "collegio perfetto", è anche vero che, ai sensi dell'art. 10/2° d.P.R. n. 323/98, il commissario che venga a trovarsi nella condizione di non potere partecipare ai relativi lavori per altro legittimo impegno, quale certamente deve considerarsi quello di non intralciare il corso della giustizia, ben può essere autorizzato a lasciare, anche temporaneamente, l'incarico.

Né ha pregio il motivo aggiunto articolato nella memoria in data 6.6.2001, il richiamo che in questa si è fatto a precedenti di questa Corte è fuori luogo, perché le soluzioni in quei casi adottate, in quanto coerenti con una certa ricostruzione fattuale, non possono essere, per così dire, "estese" al caso in esame, per ritenere l'irrilevanza penale dello stesso.

Quei precedenti giurisprudenziali vanno, anzi, tenuti presenti per qualificare più correttamente, "sub specie iuris", la condotta ascritta all'imputato.

Premesso che questa si è concretata nell'utilizzazione dell'utenza telefonica del Comune di T., per lunghe e ripetute conversazioni personali dal contenuto erotico - sentimentale, va precisato che, in questo caso, si è verificata una vera e definitiva appropriazione degli impulsi elettronici attraverso i quali si trasmette la voce, posto che l'art. 624/2° c.p. dispone che "agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile anche l'energia elettrica ed ogni altre energia che abbia valore economico".
Se, quindi, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, disponendo, per ragione dell'ufficio o del servizio, dell'utenza telefonica intestata alla P.A., la utilizza per effettuare chiamate di interesse personale, il fatto lesivo si sostanzia non nell'uso dell'apparecchio telefonico quale oggetto fisico, bensì nell'appropriazione, che attraverso tale uso si consegue, delle energie, entrate a fare parte della sfera di disponibilità della P.A., occorrenti per le conversazioni telefoniche.

Ciò porta ad inquadrare l'ipotesi in esame nel peculato ordinario di cui al primo comma dell'art. 314 c.p., considerato che non sono immediatamente restituibili, dopo l'uso, le energie utilizzate (e lo stesso eventuale rimborso delle somme corrispondenti all'entità dell'utilizzo non potrebbe che valere come ristoro del danno arrecato).
Nel caso specifico, a differenza degli episodi oggetto delle decisioni di questa Corte richiamate nella memoria difensiva, non ricorrono, avuto riguardo al tenore delle conversazioni, quelle "rilevanti e contingenti esigenze personali che, in via eccezionale, potrebbero giustificare l'utilizzo della linea telefonica di una Pubblica Amministrazione".

Fondate, invece, sono le doglianze circa la mancata concessione delle attenuanti di cui agli artt. 62 n. 4 e 323-bis c.p. e l'omessa sostituzione della pena detentiva.
Sulla ricorrenza o meno della prima attenuante, la cui concessione era stata espressamente sollecitata con l'appello, nulla dice la sentenza impugnata, che risulta, sul punto, viziata da mancanza assoluta di motivazione.

Altrettanto dicasi per l'omessa pronuncia sulla sollecitata sostituzione della pena detentiva.

Quanto alla denegata attenuante di cui all'art. 323-bis c.p., la motivazione dell'impugnata sentenza è priva di consistenza, perché fa leva genericamente sul "discredito" che sarebbe derivato all'Ente pubblico. La ricorrenza o meno di tale attenuante deve essere valutata in relazione al fatto nel suo complesso, avendo riguardo alle particolari modalità e circostanze dell'azione e dei mezzi usati, nonché agli aspetti di natura soggettiva idonei a fondare con gli altri una qualificazione del fatto attenuata. 
È il caso di aggiungere che l'eventuale concessione dell'attenuante in esame, se giustificata da elementi diversi dall'entità del danno, è compatibile con quella di cui all'art. 62 n. 4 c.p..

Va sottolineato, infine, che la diversa e più grave qualificazione giuridica del fatto, per mancanza della impugnazione del P.M. e per il divieto della "reformatio in peius", non può incidere sulla misura della pena inflitta.

L'impugnata sentenza, limitatamente all'applicabilità delle attenuanti sopra citate e della sanzione sostitutiva, va annullata con rinvio, per nuovo giudizio, alla Corte di Appello di Napoli, che dovrà fornire su tali punti motivazione adeguata e corretta.

Nel resto, il ricorso va rigettato.

P.Q.M.

Qualificato il fatto come peculato ex art. 314/1° c.p., annulla l'impugnata sentenza, limitatamente all'applicabilità degli artt. 62 n. 4, 323-bis c.p. e 53 e ss. della legge n. 689/81, e rinvia, per nuovo giudizio su tali punti, alla Corte di Appello di Napoli.

Rigetta nel resto il ricorso.

Così deciso il 27.6.2001.

Depositata in Cancelleria il 4 settembre 2001.