EDILIZIA E URBANISTICA - 064
Consiglio di Stato, sezione IV, 12 luglio 2002, n. 3929 (in termini n. 3930 e n. 3931 in pari data)
Il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 integra il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima
La norma si applica anche in caso di ricostruzione qualora questa consti nella demolizione di una villetta preesistente  e la ricostruzione al suo posto di un fabbricato di sei piani posto a una distanza inferiore ai 10 metri prescritti; la deroga è ammissibile unicamente nei casi di demolizione e ricostruzione fedele (quantomeno nelle medesime dimensioni esterne).
La distanza è vincolante indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sui ricorsi in appello:

1) n. 8986/01 R.G. proposto da G.C., rappresentato e difeso dagli avv.ti A.B. ed E.R. ed elettivamente domiciliato presso lo studio del secondo, in ...

CONTRO

i signori  ... omissis ... rappresentati e difesi dagli avv.ti I.C. e L.M. ed elettivamente domiciliati presso lo studio del secondo, in ...

E NEI CONFRONTI DI

il Comune di Venezia, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti G.G., M.M.M. e N.P. ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo, in ...
la Regione Veneto, in persona del Presidente pro tempore della Giunta Regionale, non costituita;
la P. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita;

2) n. 9202/01 R.G. proposto dalla P. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti V.D., P.M. e prof. L.I. ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo, in ...

CONTRO

i signori ... omissis ... rappresentati e difesi dagli avv.ti I.C. e L.M. ed elettivamente domiciliati presso lo studio di quest’ultimo, in ...

E NEI CONFRONTI DI

il Comune di Venezia, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti G.G., M.M.M. e N.P. ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo, in ...
la Regione Veneto, in persona del Presidente pro tempore della Giunta Regionale, non costituita;
il sig. C.G., non costituito;

3) n. 10418/01 R.G. proposto dal Comune di Venezia, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti G.G., M.M.M. e N.P. ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo, in ...

CONTRO

i signori ... omissis ...  rappresentati e difesi dagli avv.ti I.C. e L.M. ed elettivamente domiciliati presso lo studio di quest’ultimo, in ...

E NEI CONFRONTI DI

la Regione Veneto, in persona del Presidente pro tempore della Giunta Regionale, non costituita;
il sig. C.G., rappresentato e difeso dagli avv.ti A.B. ed E.R. ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo, in ...
la P. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita;

PER L’ANNULLAMENTO
(ricc. nn. 8986/01, 9202/01 e 10418/01)

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, Sezione Seconda, n.1388/2001 del 30 maggio 2001, depositata il 4 giugno 2001;

Visti i ricorsi in appello con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle parti intimate;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore alla pubblica udienza del 26 febbraio 2002 il cons. Nicola Russo ed uditi per le parti gli avv.ti E.R., A.B., G.G., I.C. L.M., L.I.;

Ritenuto e considerato in fatto ed in diritto quanto segue:

FATTO

In data 13 dicembre 2000 il Comune di Venezia rilasciava concessione edilizia n.2000/1851 al sig. G.C. per la realizzazione di un edificio destinato ad uso residenziale e commerciale, previa demolizione di edificio preesistente, nella terraferma mestrina, in area catastalmente censita al foglio ... mappale ..., destinata dal vigente P.R.G. a zona territoriale omogenea B.

Abbattuto il preesistente edificio ed iniziati i lavori alcuni vicini, proprietari di immobili posti a ridosso dell’erigendo fabbricato, impugnavano dinanzi al T.A.R. del Veneto la concessione edilizia predetta rilasciata al sig. G.C., che nel frattempo aveva ceduto il fondo e l’immobile alla P. s.r.l.

A fondamento dell’impugnativa i ricorrenti - odierni appellati e meglio indicati in epigrafe - deducevano principalmente (1°, 2° e 3° motivo di ricorso):

- che l’art. 18, comma 7, delle Norme Tecniche di Attuazione (N.T.A.) del vigente P.R.G. ed altresì l’art. 6 punto 4 delle N.T.A. della variante al P.R.G. adottata il 25 gennaio 1999 (nella parte in cui reitera tale previsione) sarebbero illegittimi in quanto contrastanti con l’art. 9 punto 2 (in tema di distanze tra fabbricati) del D.M. 2 aprile 1968, n.1444, emanato in esecuzione dell’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765, il quale stabilisce che “è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m.10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”;

- che l’art. 22 punto 3 delle N.T.A. del vigente P.R.G. ed altresì l’art. 8 punto 4 delle N.T.A. della variante al P.R.G. adottata il 25 gennaio 1999 (nella parte in cui reitera tale previsione) sarebbero illegittimi in quanto contrastanti con l’art. 8 punto 2 del citato D.M. n.1444/68, che fissa un limite inderogabile di altezza pari all’altezza degli “edifici preesistenti e circostanti”;

- che, una volta annullate le menzionate norme di P.R.G., che consentirebbero una distanza tra edifici minore di m.10 ed una altezza massima maggiore rispetto a quella degli edifici preesistenti e circostanti, risulterebbe illegittima anche la concessione edilizia impugnata, in quanto non rispettosa delle prescrizioni anzidette.

Si costituivano il Comune di Venezia e i controinteressati (sig. G.C. e P. s.r.l.), eccependo il difetto di interesse dei ricorrenti, nel rilievo che si troverebbero in una situazione di irregolarità dal momento che anche i loro edifici violerebbero le norme sulle distanze, nonché l’inammissibilità del ricorso per tardiva impugnazione delle norme urbanistiche comunali, immediatamente lesive degli interessi dei ricorrenti medesimi; quanto al merito, con articolate controdeduzioni, eccepivano l’infondatezza in fatto ed in diritto di tutte le censure avanzate, chiedendone l’integrale rigetto.

Il T.A.R. Veneto, alla camera di consiglio fissata per la trattazione dell’istanza cautelare di sospensione, ritenuto di “poter decidere la causa con sentenza in forma semplificata” a norma dell’art. 26 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, come integrato dall’art. 9 della legge 21 luglio 2000, n.205, respinte le eccezioni di difetto di interesse e di inammissibilità per tardività e ritenuto manifestamente fondato il primo motivo, relativo all’illegittimità dell’art. 18, comma 7, delle N.T.A. del P.R.G. di Venezia-Terraferma, per violazione dell’art. 9 del D.M. n.1444/68 in punto di distanze tra edifici, ha accolto il ricorso e ha annullato gli atti impugnati, dichiarando assorbite le restanti censure non esaminate e compensando integralmente le spese e gli onorari di giudizio.

La predetta sentenza è stata impugnata in appello dinanzi a questo Consiglio di Stato con tre distinti ricorsi dal sig. G.C. (ric. n. 8986/01 R.G.), dalla P. s.r.l. (n. 9202/01 R.G.) e dal Comune di Venezia (n. 10418/01 R.G.).

Si sono costituiti gli appellati, vittoriosi in primo grado e meglio indicati in epigrafe, eccependo, con analitiche controdeduzioni, l’infondatezza dei motivi di appello avversari e riproponendo il motivo, non esaminato in quanto dichiarato assorbito, relativo alla violazione dell’art. 8 del D.M. n.1444/68, nella parte in cui prescrive che l’altezza massima dei nuovi edifici non può superare l’altezza degli edifici preesistenti e circostanti.

Nel corso del giudizio le parti hanno depositato memorie, con le quali hanno ulteriormente illustrato le rispettive tesi difensive, replicato a quelle avversarie ed insistito per l’accoglimento delle conclusioni già rassegnate negli atti di costituzione.

Alla pubblica udienza del 26 febbraio 2002, i ricorsi in esame, chiamati congiuntamente, sono stati spediti in decisione.

DIRITTO

1. Deve preliminarmente disporsi la riunione delle impugnazioni (di cui ai ricc. nn. 8986/01, 9202/01 e 10418/01 R.G.) proposte separatamente dalle parti soccombenti contro la stessa sentenza (del T.A.R. del Veneto, Sez. II, n.1388/01 del 4 giugno 2001), ai sensi dell’art.335 c.p.c., applicabile anche nel giudizio di impugnazione dinanzi al Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., V, 15 maggio 1992, n.421).

2. Tanto premesso, deve dirsi che sia l’appellante Contarini che il Comune di Venezia deducono, preliminarmente, la violazione dell’art.26 L. n.1034/71 cit., come integrato dall’art.9 L. n.205/2000 cit., per mancanza dei presupposti della manifesta fondatezza e della completezza dell’istruttoria, a fronte della complessità della questione sottoposta al vaglio dei primi giudici, costituita dalla validità di una norma urbanistica fondamentale, quale quella contenuta nella Variante al P.R.G. di Venezia-Terraferma.

Ritiene il Collegio che l’art.9 debba essere letto in combinato disposto con l’art.3, comma 3, legge n.205/2000, il quale, ribadendo che la decisione in forma semplificata può essere adottata in sede di delibazione dell’istanza cautelare, dispone che il T.A.R., “accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria ed ove ne ricorrano i presupposti, sentite sul punto le parti costituite, può definire il giudizio nel merito a norma dell’art.26” (come modificato dall’art.9 cit.).

Dalla lettura del combinato disposto dell’art.9 e dell’art.3 discende la regola che il Collegio, oltre alla previa verifica dell’integrità del contraddittorio, dovrà anche previamente accertare la completezza dell’istruttoria e la sussistenza dei presupposti per la decisione in forma semplificata (manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità, infondatezza e fondatezza del ricorso), sentendo sul punto le parti costituite.

(omissis)

3. Quanto esposto in premessa consente, a ben vedere, di poter meglio esaminare le censure sollevate dagli appellanti con riferimento ai presupposti della sentenza in forma semplificata; e, infatti, deve dirsi che:

a) per quanto riguarda la completezza del contraddittorio - questione non dedotta dagli appellanti, ma rilevabile d’ufficio dal giudice di appello (cfr. Cons. St., Ad. Plen., 28 ottobre 1980, n.41; Cons. St., VI, 5 marzo 1986, n.244) - nel giudizio di primo grado vi è stata valida costituzione del medesimo, essendo state ritualmente intimate le parti necessarie, vale a dire l’Amministrazione emanante e i controinteressati; 
b) per quanto riguarda la mancanza degli altri presupposti della pronuncia in forma semplificata, costituiti dalla completezza dell’istruttoria e dalla manifesta fondatezza del ricorso, mancanza specificamente dedotta dagli appellanti Comune di Venezia e G.C., deve dirsi che la seconda di tali censure può sicuramente essere vagliata in sede di esame del merito, attenendo alla fondatezza o meno del motivo accolto dal giudice di prime cure e censurato con l’appello, mentre la prima appare infondata, non rinvenendosi specifici accertamenti istruttori, omessi da parte del giudice di primo grado, che potrebbero far pervenire alla riforma del punto decisivo della controversia, dal momento che, come si vedrà, incontestato era il presupposto di fatto relativo alla deroga, da parte delle N.T.A. e della concessione edilizia impugnate, alla rigida disciplina delle distanze dettata dall’art. 9 D.M. n.1444/68 cit. e che la documentazione depositata era idonea a suffragare la rilevata portata generale della deroga in questione; 
c) per quanto, infine, riguarda la carenza di motivazione - censura non formalmente dedotta, ma desumibile dal contenuto sostanziale degli appelli in esame - essa è infondata, in quanto la decisione impugnata appare conforme al dettato legislativo, secondo cui nella sentenza succintamente motivata “la motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo” (art. 26 legge n. 1034/71 cit., come integrato dall’art. 9 legge n. 205/2000 cit.), essendo nella specie la motivazione idonea ad esprimere il contenuto essenziale della decisione.

Questione diversa, naturalmente, è quella della fondatezza o meno delle argomentazioni poste dal giudice di prime cure a sostegno della propria decisione, argomentazioni che sono state espressamente censurate dagli odierni appellanti attraverso specifici motivi di censura, questione che, costituendo il merito del presente gravame, si passa ora ad esaminare.

4. Occorre analizzare, anzitutto, le censure con cui gli appellanti si dolgono del mancato accoglimento, da parte del giudice di primo grado, dell’eccezione, da essi proposta, di inammissibilità, per tardività, delle presupposte norme urbanistiche comunali (artt. 18, comma 7 e 22, comma 2, delle N.T.A. del P.R.G. di Venezia-Terraferma).

Il T.A.R. ha respinto l’eccezione in base al rilievo che le relative prescrizioni urbanistiche non erano immediatamente lesive, ma tali sarebbero diventate solo a seguito del provvedimento applicativo e, cioè, solo dopo il rilascio della concessione edilizia impugnata.

Secondo gli odierni appellanti, invece, la prescrizione di cui all’art. 18, comma 7, delle N.T.A. della variante al P.R.G., stabilendo che i costruendi edifici, in evidente deroga al D.M. 2 aprile 1968 n. 1444, potranno rispettare unicamente la prescritta distanza dai confini e non anche quella tra fabbricati, era immediatamente lesiva delle posizioni dei ricorrenti e, pertanto, andava impugnata immediatamente nel termine di sessanta giorni dalla pubblicazione; essa, del resto, costituirebbe una previsione puntuale e non generale, dal momento che andrebbe a beneficio non di ogni proprietario di lotti edificabili in zona B, ma soltanto di quelli “i cui lotti siano circondati da edifici per l’edificazione dei quali non siano state rispettate le distanze previste dalla legge”.

La censura è priva di pregio.

Le N.T.A., infatti, sono atti a contenuto generale, recanti prescrizioni a carattere normativo e programmatico, destinate a regolare la futura attività edilizia e, in quanto tali, non sono di per sé immediatamente lesive di posizioni giuridiche soggettive di singoli, per cui la loro impugnazione può avvenire soltanto unitamente all’impugnazione del provvedimento che ne costituisca la concreta applicazione e il termine per la proposizione del relativo ricorso decorre non dalla data di pubblicazione della norma di piano, bensì dalla piena conoscenza del provvedimento esecutivo (cfr. Cons. St., IV, 13 agosto 1997, n.845; Cons. St., V, 29 aprile 1991, n.699; Cons. St., IV, 6 ottobre 1983, n.700).

5. Con altro ordine di censure gli appellanti si dolgono del mancato accoglimento, da parte del giudice di prime cure, dell’eccezione di difetto di interesse da essi sollevata sul rilievo che i ricorrenti in primo grado si troverebbero in una situazione di irregolarità, dal momento che anche i loro edifici violerebbero le norme sulle distanze, in quanto costruiti a distanza dal confine inferiore a quella stabilita dal Regolamento di Igiene (m. 3).

Il T.A.R. ha respinto l’eccezione in base alla considerazione che tale circostanza rileverebbe semmai ai fini di un eventuale intervento repressivo dell’Amministrazione comunale, ma non farebbe venir meno l’interesse al rispetto della normativa urbanistica da parte dei confinanti e che, quindi, il criterio civilistico “in pari causa turpitudinis” non varrebbe nel giudizio amministrativo.

Secondo gli appellanti G.C. e P. s.r.l., invece, la sentenza del T.A.R. avrebbe omesso di considerare che, come rilevato in primo grado, essi avrebbero acquisito per usucapione una “servitù attiva” al mantenimento del fabbricato ad una distanza minore di quella legale e che, mentre alcuni dei ricorrenti (i signori O.) verserebbero in una situazione di irregolarità, in quanto i loro poggioli sarebbero a distanza inferiore a quella consentita, tutti i fabbricati di proprietà dei ricorrenti si troverebbero a distanza minore di quella consentita e che, quindi, non potrebbe essere offerta tutela giurisdizionale a posizioni che si trovino in irrimediabile contrasto con il diritto oggettivo, che la P.A. è tenuta ad applicare nello svolgimento dell’azione amministrativa.

Le censure in esame sono destituite di fondamento.

E, invero, ad avviso del Collegio, la tesi degli appellanti potrebbe trovare un certo seguito qualora nella specie si trattasse di una controversia tra privati in cui venissero in rilievo solamente le norme edilizie comunali che prescrivono l’osservanza di un determinato distacco delle costruzioni su fondi finitimi calcolato rispetto al confine anziché tra le costruzioni stesse, norme dettate a tutela dei reciproci diritti soggettivi dei singoli e, quindi, derogabili mediante convenzioni fra privati (che concretano veri e propri atti costitutivi di servitù: cfr. Cass. civ., 16 dicembre 1980, n. 6512; Cass. civ., 30 marzo 1983, n. 2331); in tal caso il giudice potrebbe anche tener conto dell’avvenuta violazione da parte del preveniente delle norme sulle distanze legali al fine di determinare in concreto le facoltà spettanti al secondo costruttore (c.d. prevenuto) (cfr. Cass. civ., 26 maggio 1986, n. 3530).

Nella specie, invece, si tratta dell’impugnazione di un provvedimento dell’autorità amministrativa (concessione edilizia) che ha autorizzato una costruzione in deroga alle norme di cui al D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, aventi carattere pubblicistico e inderogabile, in quanto dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali in materia urbanistica, norme che si riferiscono alla distanza fra fabbricati e non alla distanza di questi dal confine (cfr. Cass. civ., II, 16 febbraio 1996, n. 1021).

Il D.M. 2 aprile 1968 cit., infatti, emanato in forza dell’art. 17 della «legge ponte» trae da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima (cfr. Cass. civ., SS.UU., 21 febbraio 1994, n. 1645), essendo consentita alla P.A. solo la fissazione di distanze superiori (cfr. Cons. St., IV, 13 maggio 1992, n. 511; Cass. civ., 29 ottobre 1994, n. 8944; id., 21 febbraio 1994, n. 1645; id. 4 febbraio 1998, n. 1132); non può, pertanto, escludersi la legittimazione e l’interesse del privato confinante ad impugnare le norme dello strumento urbanistico comunale ed i conseguenti atti applicativi nel momento in cui in base ad essi sia prevista a favore del vicino costruttore una consistente deroga alla rigida osservanza delle distanze tra fabbricati di cui al D.M. n. 1444/68 cit., nella specie attuata, come dedotto dagli appellati, tramite la demolizione di un edificio preesistente - una villetta - e la ricostruzione al suo posto di un fabbricato di sei piani posto a una distanza inferiore ai dieci metri prescritti; la deroga, infatti, viene ritenuta ammissibile unicamente nei casi di demolizione e ricostruzione in forma fedele (quantomeno nelle medesime dimensioni esterne), non potendosi ritenere sussistente in tal caso una nuova costruzione, ma solo il suo recupero, con una serie di interventi assimilabili alla manutenzione straordinaria (cfr. Cass. civ., 25 agosto 1989, n.3762).

Alla luce di tale situazione non possono allora nemmeno accogliersi quegli ulteriori profili di carenza di interesse sollevati dall’appellante G.C. nel quarto motivo, laddove egli afferma trattarsi di un progetto migliorativo della precedente situazione delle distanze, dal momento che, ad avviso del Collegio ciò non è, avuto riguardo sia all’aspetto delle distanze fra le costruzioni che a quello dell’altezza dell’erigendo fabbricato, in quanto grandezze in rapporto funzionale fra di loro e che si influenzano reciprocamente.

D’altro canto, non può neppure accogliersi l’ulteriore profilo di difetto di interesse, sempre sollevato dall’appellante G.C. nel quarto motivo di appello, relativo al fatto che la norma di piano impugnata (art. 18, comma 7, N.T.A.), nel prevedere un analogo regime di facoltà anche a favore dei ricorrenti in primo grado, consentendogli di edificare ad una distanza dal confine non inferiore a cinque metri, permetterebbe così di raggiungere in via “progressiva” il risanamento graduale della situazione urbanistica, alquanto degradata, e ciò sia per il summenzionato carattere inderogabile della normativa in questione, sia perché, quand’anche fosse consentito al controinteressato, in base alle N.T.A. impugnate, di costruire ad una distanza inferiore ai dieci metri di cui all’art. 9 D.M. n.1444/68 cit., ma non inferiore ai cinque metri dal confine, gli odierni appellati, come dagli stessi correttamente eccepito, non avrebbero alcun obbligo di demolire ed arretrare il proprio fabbricato sino a raggiungere la distanza tra fabbricati di dieci metri, per cui l’invocata “formazione progressiva” non si realizzerebbe.

6. Infine, secondo gli appellanti il T.A.R. avrebbe errato sia nel considerare come assolutamente inderogabile la norma di cui all’art. 9 del D.M. 2 aprile 1968, n.1444, sia nel qualificare la norma regolamentare impugnata (art. 18, comma 7, N.T.A.) come avente carattere generale, anziché puntuale, o meglio disciplinante una serie di interventi puntuali, ritenendola non riconducibile alla previsione di cui all’ultimo comma dell’art. 23 della L.R. Veneto 27 giugno 1985, n.61.

Tali censure sono infondate.

Ad avviso del Collegio, infatti, correttamente il T.A.R. ha ravvisato la manifesta fondatezza del primo motivo di ricorso, con cui era stata dedotta l’illegittimità (per violazione dell’art. 9 del D.M. 1444/68 e dell’art. 23 della L.R.V. 61/85) dell’art. 18, comma 7, delle N.T.A. del P.R.G. di Venezia-Terraferma, affermando che « … tale previsione generale che consente di derogare al limite minimo di distanza tra edifici (fissato in mt. 10 dalle norme statali e regionali sopra citate) viola una norma che è inderogabile …» e che la controversa norma urbanistica comunale «non può nemmeno essere ricondotta alla previsione dell’art. 23, ultimo comma, L.R. Veneto 61/85 che consente distanze minori “per interventi puntuali disciplinati dal Piano Regolatore Generale”» poiché nella specie «si tratta di norma di generale applicazione anche se giustificata, come dedotto dal difensore del Comune di Venezia nell’odierna camera di consiglio e come risulta dalla relazione alla norma urbanistica, da un’analisi precisamente riferita alle zone B e ad una consistenza di 22.626 edifici, parte dei quali potenzialmente interessati dall’applicazione della norma stessa».

Premesso che nella specie non è contestato né il carattere derogatorio della norma impugnata (art. 18, comma 7, N.T.A. del P.R.G. di Venezia-Terraferma) rispetto alla disciplina di cui all’art. 9 D.M. n.1444/68 cit. (cfr. pag. 6 appello G.C., pag. 5 appello P. s.r.l. e pag.13 appello Comune di Venezia), né il fatto che la concessione edilizia impugnata preveda una distanza tra fabbricati inferiore a quella di 10 mt. prescritta dall’art. 9 cit. (cfr. pag.14 appello G.C.: “la distanza tra i fabbricati dei ricorrenti in primo grado e quella dell’erigendo edificio G.C. varia da minimi di oltre 7,50 metri a massimi di 9,88 metri”; pag.10 appello P. s.r.l.: “…l’immobile concessionato si manterrebbe ad una distanza dagli edifici preesistenti tra i 7,61 ed i 10,16 metri”), deve dirsi che, come sopra ricordato, il D.M. 2.4.1968, n.1444 che, in applicazione dell’art. 41-quinquies della legge urbanistica (come modificato dall’art. 17 della legge ponte 6 agosto 1967, n. 765) detta i limiti di densità, altezza e distanza tra i fabbricati, all’art.9, comma 1, n.2, dispone che negli edifici ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona A (e nella specie trattasi di zona B), è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, con prescrizione avente carattere di assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali (cfr. Cass. civ., II, 7 giugno 1993, n. 6360) e ciò indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra (cfr. Cass. civ., II, 3 agosto 1999, n. 8383; id., 18 febbraio 1997, n. 1486; id., 6 maggio 1993, n. 5226; id., 5 novembre 1992, n. 12001).

L’art. 22, comma 1, della L.R. Veneto n. 61/85 prevede, poi, che “nella formazione, modificazione o revisione degli strumenti urbanistici, generali e attuativi, devono essere assicurati ai sensi del D.M. LL.PP. 2 aprile 1968, n. 1444, in quanto non modificato dalla presente legge: …. 2) … distanze minime tra costruzioni … nelle diverse zone territoriali omogenee”.
Il successivo art. 23, dopo aver premesso che “le distanze minime tra fabbricati sono quelle di cui all’art. 9 del D.M. LL.PP. 2 aprile 1968, n. 1444”, afferma che “minori distanze tra fabbricati e dalle strade sono ammesse nei casi di gruppi di edifici che formino oggetto di piani urbanistici attuativi planivolumetrici o per interventi puntuali disciplinati dal Piano Regolatore Generale”.

Ora, nella specie, escluso che si trattasse di un gruppo di edifici oggetto di un piano urbanistico attuativo planivolumetrico, l’intervento in questione non era certamente qualificabile come intervento puntuale disciplinato dal P.R.G., dal momento che la norma urbanistica impugnata in primo grado integrava una disposizione di carattere generale, ossia ammetteva una deroga alla disciplina delle distanze tra fabbricati di cui al D.M. n. 1444/68 cit., consentendo di edificare rispettando unicamente la prescritta distanza dai confini, in tutti i casi in cui sussistessero nel lotto limitrofo costruzioni realizzate “in data antecedente all’approvazione delle presenti norme” in violazione della distanza dal confine; e, del resto, il carattere generale della norma è implicitamente - anche se non consapevolmente - ammesso dagli stessi appellanti, laddove essi affermano che tale norma “si rivolgeva non soltanto al signor G.C. ma anche agli stessi ricorrenti, concedendo agli uni e agli altri le medesime potenzialità edificatorie nel presupposto (comune agli uni e agli altri in linea di fatto) che, per nessuno dei loro edifici, la distanza dal confine fosse conforme a quella prevista” (cfr. pagg.11 e 12 appello G.C.).

E’ evidente, dunque, che la norma in questione era stata dettata per la generalità dei casi riguardanti i lotti con abitazioni limitrofe poste in violazione delle distanze dai confini e che, anche se si fondava su un’analisi accurata dello stato di fatto e su precise previsioni di sviluppo urbanistico, non disciplinava in maniera puntuale e specifica l’intervento de quo (ad esempio, tramite un’apposita “scheda” ex art. 9, comma 2, punto 3 della L.R. Veneto n. 61/85 cit.), ma si limitava a stabilire delle prescrizioni di carattere generale applicabili anche a tale intervento.

E, del resto, anche la normativa statale ha circondato di particolari cautele la possibilità di derogare al limite minimo dei dieci metri, ammettendo tale possibilità solo per “gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche” (cfr. art. 9, ultimo comma, D.M. n. 1444/68 cit.), e, cioè, ammettendo la deroga alle distanze in oggetto solamente in presenza di edifici costituenti un insieme e che siano altresì oggetto di uno specifico strumento attuativo ad essi relativo (cfr. Cons. St., V, 20 novembre 1987, n. 703).

La norma di cui all’art. 23, ultimo comma, della L.R. Veneto n. 61/85 cit. appare ispirata alla medesima ratio, nel senso che la possibilità di deroga da parte del P.R.G. implica non solo che esso sia accompagnato da “un’analisi precisamente riferita alle zone B e ad una consistenza di 22.626 edifici, parte dei quali potenzialmente interessati dall’applicazione della norma stessa”, ma che contenga una disciplina altrettanto dettagliata per gli specifici interventi da eseguire, in modo da assicurare che nei singoli casi, attraverso la deroga alla disciplina delle distanze (unitamente a quella delle altezze), non vengano compromesse quelle esigenze di rispetto del decoro edilizio, dell’igiene e della salubrità che, invece, le norme di cui al D.M. n. 1444/68 cit. tendono a garantire, in quanto indispensabili per l’ordinato sviluppo del territorio.

7. Con un ultimo motivo di gravame il Comune di Venezia sostiene l’inapplicabilità delle disposizioni di cui al D.M. n. 1444/68 al caso di specie, in quanto tali disposizioni si applicano in sede di adozione di nuovi strumenti urbanistici o di revisione di quelli esistenti; secondo il Comune, nell’ipotesi di revisione degli strumenti urbanistici esistenti rientrerebbero le revisioni degli strumenti urbanistici che riguardino l’intero territorio comunale o che contengano una nuova disciplina complessiva di tutta una parte del territorio comunale, mentre nella specie si tratterebbe di una semplice variante di settore.

La censura è infondata.

Anzitutto, dal provvedimento della Giunta Regionale di approvazione (n. 531 del 23 febbraio 1998) risulta che la variante in esame è stata adottata “come variante generale al p.r.g. vigente pur se non investe l’intero territorio comunale”.
In secondo luogo, dall’esame delle N.T.A. si evince chiaramente che la variante medesima introduce una nuova disciplina complessiva per tutta una parte del territorio comunale (la terraferma veneziana).
Infine, occorre dire che, se è vero che l’applicazione dell’art. 17 della legge n. 765 del 1967 e della disposizione del D.M. n. 1444 del 1968, secondo cui le costruzioni debbono osservare una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, sono subordinate all’inesistenza di strumenti urbanistici anteriori contenenti norme sulle distanze (cfr. Cass. civ., SS.UU., 22 novembre 1994, n. 9871), tuttavia gli strumenti urbanistici (e le relative revisioni) approvati successivamente all’entrata in vigore del citato decreto non possono contrastare con le direttive del decreto stesso (cfr. Cass. civ., II, 24 luglio 2001, n.10062).

8. Alla stregua delle suesposte argomentazioni gli appelli in esame devono, quindi, essere respinti, con conseguente assorbimento del motivo riproposto dagli appellati in sede di memoria.

Sussistono, tuttavia, giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese e gli onorari del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sezione Quarta - definitivamente pronunciando sugli appelli di cui in epigrafe, previamente riuniti, li respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 26 febbraio 2002, con l’intervento dei seguenti signori:

Gaetano TROTTA, Presidente
Domenico LA MEDICA, Consigliere
Dedi M. RULLI, Consigliere
Aldo SCOLA, Consigliere
Nicola RUSSO, Consigliere est.