AFFARI ISTITUZIONALI - 009

L’abrogazione dell'articolo 130 della Costituzione
L’efficacia delle disposizioni costituzionali

(Luigi Oliveri)

Il dibattito aperto sull’abrogazione immediata o meno dei controlli sugli atti amministrativi degli enti locali pare avere tenuto “sotto traccia” il problema dell’efficacia delle norme costituzionali sull’ordinamento giuridico.

Fin ora a fronte di chi ritiene che l’imputazione della funzione di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali ad un organo della regione sia da ascrivere alla Costituzione e non alla legge ordinaria, sicché i controlli sono soppressi per effetto dell’abrogazione dell’articolo 130 della Costituzione, le tesi contrarie hanno tratto argomentazioni di stampo diverso.

Tra esse, hanno assunto rilievo soprattutto le seguenti:

- l'abrogazione dell'art. 130 ha solo "decostituzionalizzato" la materia; pertanto, poiché la Costituzione non prevede più espressamente i controlli, comunque la legge statale e quella regionale che disciplinano la materia producono i loro effetti, trattandosi di norme praeter costituzione;
- la contrarietà della legge rispetto alla Costituzione comporta la necessità dell’intervento eventuale della Corte Costituzionale, che pronunci una sentenza di accoglimento della questione di illegittimità costituzionale, non essendosi verificato un effetto abrogativo diretto tra Costituzione e legge ordinaria, operando le due fonti su piani gerarchici differenti;
- occorre un intervento del legislatore (statale o regionale) per abrogare le disposizioni di legge ordinaria relative ai controlli e, a tale fine, anche per esigenze di coordinamento sarebbe opportuna una modifica al decreto legislativo n. 267 del 2000 apportata dal Parlamento nazionale;
- i vari accordi Governo/Regioni, lettere, inviti etc. hanno valore sul piano politico, semmai su quello penale (per scusare eventuali non invii) ma certo non hanno forza abrogante.

Dette argomentazioni sembrano appunto non tenere nel dovuto conto l’originalità della fattispecie cui ha dato luogo la legge cost. n. 3 del 2001, la quale per la prima volta ha abrogato una disposizione costituzionale, senza sostituire ad essa una differente disciplina. Per altro, si è trattato dell’abrogazione di una norma costituzionale posta a fondamento della possibilità stessa, per il legislatore statale e regionale, di sottoporre a controllo gli atti amministrativi degli enti locali.

L’articolo 130 poteva certamente ascriversi tra le norme costituzionali che secondo la dottrina classica appartengono alla categoria delle norme ad efficacia differita. Infatti, perché si desse attuazione alla previsione organizzativa e programmatica in essa contenuta, “un organo della regione, costituito nei modi stabiliti dalla legge della Repubblica, esercita anche in forma decentrata il controllo di legittimità sugli atti delle province, dei comuni e degli altri enti locali”, occorreva una legge statale prima, ed una norma regionale, dopo, che dettassero la disciplina ulteriore, di completamento e appunto di attuazione della previsione costituzionale.
Lo stesso vale, ad esempio, per l’articolo 75, che prevede l’istituto del referendum, ma demanda ad una legge ordinaria l’attuazione dell’istituto.

Ora, accanto alle norme costituzionali ad efficacia differita, esistono anche quelle di principio. Anche queste demandano ad un successivo intervento del legislatore ordinario la disposizione di una normativa che renda attuabile il principio, per renderlo concreto nei singoli casi specifici. Le norme di principio si distinguono, in linea teorica, da quelle ad attuazione differita, in quanto queste stabiliscono esattamente la fattispecie, ma rinviano l’attuazione concreta ad una normativa di completamento. Le norme di principio, invece, non pongono regole concrete, bensì determinano le modalità con le quali il legislatore ma anche i giudici e gli organi esecutivi debbono operare in modo tale da rendere la normativa di regolamentazione della materia e l’azione amministrativa adeguata alle previsioni astratte e generali del principio.

Vi sono, poi, le norme costituzionali programmatiche, la cui distinzione con quelle di principio appare molto sfumata, in quanto nel principio si può certo ricavare un programma, mentre una disposizione programmatica può certamente essere di così ampia portata da prefigurare anche un principio.
Anche le norme programmatiche, al pari di quelle di principio e di quelle ad esecuzione differita, sono alla base di un successivo intervento normativo, che come tale è legittimo in quanto rispondente al precetto, al principio ed al programma.
Da questo punto di vista, allora, si nota che le disposizioni normative di esecuzione della norma ad efficacia differita di cui all’articolo 130 della Costituzione traggano la loro legittimazione proprio dalla loro natura di esecuzione e completamento: esse fanno corpo unico con la disposizione costituzionale che è il loro fondamento.

Mancando la base di questo corpo unico, allora, accade che l’impalcatura può crollare.

Occorre, allora, verificare se è corretta l’affermazione che l’abrogazione dell’articolo 130 della Costituzione abbia semplicemente dato corso alla decostituzionalizzazione dei controlli, il che consentirebbe l’ultravigenza degli stessi, nonostante la loro evidente contrarietà alla carta costituzionale, fino, addirittura, a negare la contrarietà stessa a Costituzione, ammettendo una possibilità di sopravvivenza essendo norma praeter Costituzione.
Ebbene, questa conclusione non pare sostenibile. Nell’interpretare sistematicamente la fattispecie non si può non tenere presente che il legislatore costituente è passato da una disciplina che, pur tutelando l’autonomia degli enti locali ai sensi degli articoli 5 e 128 della Costituzione, prevedeva comunque un’ingerenza della regione, mediante i controlli, ad un’altra disciplina che valorizza ulteriormente l’autonomia degli enti locali, proprio eliminando in radice i controlli. Tenendo presente questa considerazioni non si può non concludere che le disposizioni delle leggi statali e regionali sui controlli siano contrarie a Costituzione. Non pare sostenibile, pertanto, qualsiasi tesi tendente a negare l’incostituzionalità di dette norme, sol perché la Costituzione non vieti espressamente i controlli. L’evoluzione normativa del dettato costituzionale lascia estrarre il principio generale della completa autonomia degli enti locali e territoriali, essendo ammessa un’ingerenza solo da parte dell’ente Stato, in base al potere sostitutivo previsto dall’articolo 120 novellato della Costituzione. Sicché, così come non sono conformi a costituzione il decreto legislativo n. 267 del 2000 e tutte le leggi regionali riguardanti i controlli, ancor meno lo sarebbe qualunque legge che reintroducesse i controlli, per chiaro contrasto con una volontà del legislatore costituente, passato da una normativa ad esecuzione differita legittimante l’intervento del legislatore ordinario, ad una normativa che ha eliminato completamente ogni fondamento della potestà legislativa ordinaria in materia.

A questo punto, occorre ricordare che nella Costituzione esistono anche norme ad efficacia diretta, in grado di dettare direttamente la regola di casi concreti, come ha riconosciuto la stessa Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 1 del 1956. Del resto, la tutela assicurata ai lavoratori dipendenti in materia di diritto ad una retribuzione adeguata è, appunto, l’applicazione diretta, da parte del giudice, del precetto costituzionale direttamente posto dall’articolo 36.
Pertanto, non è corretto ritenere che la Costituzione non detta mai la disciplina diretta della materia: essa è capace di stabilire la disciplina che “deve essere utilizzata direttamente da tutti i soggetti dell’ordinamento giuridico, siano essi i giudici, la pubblica amministrazione, i privati”.
Allora, ci si può chiedere in quale categoria di norma costituzionale rientri l’articolo 9 ella legge cost. n. 3 del 2001, che per la prima volta, come rilevato, ha eliminato una disciplina costituzionale, senza sostituirne ad essa un’altra.
Pare da scartare che l’articolo 9 citato consista in una norma ad efficacia indiretta. Essa, infatti, di per sé non è certamente una disposizione ad attuazione differita, perché non demanda ad un successivo intervento della legge ordinaria l’eliminazione dei controlli, che, al contrario, è “posta”, determinata direttamente come regola immediata.
Non pare nemmeno una norma programmatica, dal momento che nell’articolo 9 non è dettato un programma (la progressiva eliminazione dei controlli, ricorrendo certi presupposti ed attivando certi altri atti).
Allo stesso modo, data la sua natura “positiva”, sia pure negativa, la norma non dispone un principio, ma incide direttamente sulla fattispecie dei controlli. Ma, semmai, se si volesse trarre un principio dall’articolo 9 della legge cost. n. 3 del 2001, esso non potrebbe che riguardare quello dell’abrogazione dei controlli, giammai la loro conservazione né, ancor meno, la loro reintroduzione.
Ma, in realtà, si tratta di norma dispositiva che regola direttamente la materia: i controlli, nel precedente sistema, esistevano in quanto richiesti dalla Costituzione. Nel nuovo ordinamento, la Costituzione li ha espunti.

Dunque, l’interrogativo non riguarda “se” i controlli siano costituzionali o meno, ma “quando” e “come” essi debbano cessare.
Qui si incentra il dibattito sulla necessità, o meno, che intervenga la Corte Costituzionale, in relazione all’ammissibilità che la norma costituzionale possa avere un effetto abrogativo diretto sulla legge ordinaria.

Le forti argomentazioni poste dalla dottrina contraria all’immediata abrogazione dei controlli debbono, però, tenere conto proprio della natura indubbiamente precettiva e non programmatica dell’articolo 9 della legge cost. n. 3 del 2001. La corretta configurazione di detta norma come regola concreta, che fa “corpo” con l’ordinamento, porta inevitabilmente a superare qualunque obiezione relativa sia al diverso rango nelle fonti, sia all’inapplicabilità dell’articolo 15 delle preleggi.

Se le norme costituzionali ad efficacia diretta possono influire sull’ordinamento giuridico, lo fanno nella piena esplicazione del potere legislativo, di rango costituzionale. La Costituzione italiana, in questo senso, è diversa da quelle dei regimi liberali dell’ottocento, miranti esclusivamente a limitare i poteri di ingerenza dello Stato nei confronti dell’individuo. Così come nell’ordinamento di oggi la legge ordinaria ha perso la sua preminenza come fonte sostanzialmente univoca della disciplina dell’ordinamento medesimo. Da più parti si è segnalata la crisi della legge ordinaria come fonte preminente dell’ordinamento, non solo per l’esistenza di fonti anomale o rinforzate che incidono direttamente sulla vita sociale o delle istituzioni (ad esempio, le norme sui trattati tra Stato italiano e Stato pontificio, i regolamenti parlamentari), ma anche e soprattutto perché la Costituzione, quale norma in grado di disciplinare direttamente le regole giuridiche, gerarchicamente superiore alla legge stessa è misura di validità della legge, ma anche disciplina concreta che può incidere sulla legge.

Poiché l’articolo 9 della legge cost. n. 3 del 2001 non è norma programmatica né di principio ma di diretta applicazione, in quanto elimina immediatamente dall’ordinamento la norma ad esecuzione differita che richiedeva i controlli, le norme attuative dell’articolo 130 sono esse stesse coinvolte nell’abrogazione diretta operata dall’articolo 9 citato. Infatti, ai fini dell’abrogazione, non occorre alcuna norma che attui l’eliminazione dal mondo giuridico da essa prevista. Il fenomeno del rinvio dell’abrogazione ad un provvedimento successivo è disciplinato dall’articolo 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988 in materia di regolamenti delegati di delegificazione, come situazione straordinaria, che rinvia l’abrogazione di alcune disposizioni di legge, individuate da una legge di delega, alla successiva entrata in vigore di un regolamento, al quale la legge di delega assegna il compito di riformulare la disciplina normativa, dando corso appunto alla delegificazione, col risultato sia di eliminare leggi, sia di far scendere la normazione dal livello gerarchico primario a quello secondario.

In generale, tuttavia, una fonte sovraordinata può certamente abrogare immediatamente la fonte ad essa sott’ordinata, dato che solo nel rapporto di competenza puro esiste la completa neutralità o impossibilità reciproca per le fonti di abrogarsi a vicenda.
Se la Costituzione ha, come cospicua dottrina ammette, capacità di dettare la regola concreta del diritto, essa può certamente abrogare le norme di diritto positivo direttamente connesse, annesse, anzi, al precetto costituzionale abrogato, quando la norma abrogativa non sia né un programma, né un principio, come nel caso che ne occupa.
Dunque, qualunque intervento normativo teso ad abrogare le leggi sui controlli, apparirebbe ultroneo: si tratterebbe solo di una presa d’atto, di un chiarimento a livello di legislazione primaria di un evento già determinato dalla regola costituzionale.

L’osservazione che il fenomeno dell’immediata abrogazione di leggi ordinarie da parte di leggi costituzionali, di fatto, non si è mai verificata e la sottolineatura che dopo l’avvento della Repubblica rimasero per molto tempo in piedi le leggi del previgente regime, non sembra decisiva.
In quell’epoca si determinò il passaggio da un intero ordinamento giuridico ad uno nuovo e diverso, del quale esistevano sostanzialmente i principi costituzionali, ma in larga parte non le norme ordinarie attuative degli stessi.
Sorse, allora, un orientamento dottrinale e giurisprudenziale responsabilmente inteso a considerare pur tuttavia vigenti le norme del precedente sistema, nonostante la loro contrarietà alla Costituzione, per consentire che l’ordinamento giuridico della nuova Italia repubblicana fosse salvaguardato dal verificarsi di una serie di vuoti normativi, che avrebbero causato il caos e l’immobilismo delle istituzioni. Da qui l’interpretazione secondo la quale l’operatività della Costituzione andava mediata dall’entrata in vigore di nuove norme, le quali avevano il preciso . scopo di attuare, per la prima volta, principi costituzionali nuovi. A questa interpretazione si accompagnò il cauto atteggiamento della Consulta intervenuta spesso anche a supplire l’inerzia del legislatore nell’eliminare le norme incostituzionali dall’ordinamento, mediante le sentenze additive o interpretative di rigetto, con le quali completare l’armonizzazione delle leggi ante Repubblica al nuovo ordinamento, senza traumi.

In ogni caso, le norme costituzionali del ’48 non avevano abrogato precedenti norme costituzionali nell’ambito di un medesimo ordinamento giuridico assestato, come nel caso della legge costituzionale n. 3 del 2001.
Peraltro, l’abrogazione dell’articolo 130 della Costituzione, se si ammette che comporti anche l’abrogazione delle norme ordinarie che su di esso poggiano, non crea alcun vuoto ordinamentale e nessun problema di carattere operativo. Semplicemente, la fase integrativa dell’efficacia degli atti prima soggetti al controllo preventivo di legittimità si completa con la pubblicazione.
Non si vede, d’altra parte, quale legittimazione costituzionale avrebbe lo Stato ad intervenire sull’argomento dei controlli, al fine di chiarire se essi sono abrogati o meno, visto che l’ordinamento degli enti locali attiene indubbiamente alla potestà legislativa esclusiva delle regioni. Non è infatti possibile, come pure qualcuno adombra, che l’articolo 117, comma 2, lettera p), consenta allo Stato di legiferare in merito, visto che con ogni evidenza la legge dello Stato può riguardare solo modalità di elezione degli organi, disciplina degli organi stessi e delle funzioni: appare assolutamente chiaro che la disciplina dei controlli non può affatto rientrare in queste tre casistiche.

Pertanto, vi sarebbe un’evidente incostituzionalità della norma statale per incompetenza, ma anche nel merito, a causa dell’aperta violazione al dettato costituzionale, nell’ipotesi in cui detta legge intendesse mantenere in vita i controlli. La medesima illegittimità per contrarietà a Costituzione caratterizzerebbe le leggi regionali tendenti a conservare le funzioni di controllo dei Co.Re.Co.
Soluzioni di compromesso come quelle paventate da esponenti del governo, secondo le quali sarebbe opportuna una legge dello Stato che rimetta ai consigli la scelta se inviare o meno al controllo le delibere di propria competenza, non risolvono affatto il problema. La questione non riguarda chi deve inviare le delibere al controllo, ma se il controllo possa essere esercitato.

Insomma, il problema non concerne gli enti locali, i quali potrebbero anche continuare ad inviare le proprie deliberazioni. Il fatto è che i Co.Re.Co. non sono più legittimati a controllare. Insomma, spostare l’attenzione dalla sostanza del problema (chi controlla e in base a quale legittimazione), alla formalità procedurale (chi invia al controllo) è un’operazione che rischia di ingenerare maggiori confusioni.
Allo stesso modo, non paiono condivisibili le opinioni che ritengono ancora in piedi i controlli eventuali. L’abrogazione dell’articolo 130 della Costituzione ha risolto il problema del sospetto di incostituzionalità che nel precedente regime riguardava il difensore civico quale organo di controllo, dal momento che non si trattava di un organo della regione. D’altro lato, però, la totale eliminazione dalla carta costituzionale della previsione di un controllo esterno di legittimità pare coinvolga anche il controllo eventuale. Per altro, detta forma di controllo non riguarda, in ogni caso, le deliberazioni consiliari, ma solo quelle della giunta, per altro limitatamente alle deliberazioni in materia di dotazioni organiche, essendo sottratta ogni possibilità di controllo sulle delibere relative alle assunzioni, le quali scaturiscono da atti negoziali, e su quelle riguardanti gli appalti, visto che le vicende delle gare sono disciplinate sostanzialmente dal combinato disposto del P.e.g. e delle determinazioni a contrattare.

Ogni modifica apportata, oggi, dal Parlamento nazionale al decreto legislativo n. 267 del 2000, insomma, è a sua volta incostituzionale, e solo l’acquiescenza delle regioni o dei cittadini per i quali la questione di legittimità costituzionale possa rivelarsi rilevante potrebbe mantenerla vigente.