AFFARI ISTITUZIONALI - 003

ILLEGITTIMITA' AMMINISTRATIVA E ILLICEITA' PENALE
di Carlo Modica, magistrato amministrativo, relazione al Convegno di Catania del 26-27 Aprile 1996.

Sempre più fra gli operatori del diritto si assiste al preoccupante fenomeno culturale dell'identificazione dell'area dell'"illegittimità" amministrativa con quella dell'"illiceità" penale.

Sempre più, soprattutto fra i Magistrati del Pubblico Ministero, i Giudici per le indagini preliminari e talvolta anche fra i Giudici penali di merito, si afferma l'idea che l'"illegittimità amministrativa" e l'"illiceità penale" costituiscano due "risvolti di un'unica medaglia".

Che - cioè - illegittimità amministrativa ed illiceità penale si risolvano in due categorie logico-giuridiche omologhe e sovrapponibili in quanto volte entrambe a definire, seppur in sedi giurisdizionali e per effetti diversi, un'unica fattispecie, consistente nella violazione della normativa posta a tutela della Pubblica Amministrazione.

L'attuale configurazione della fattispecie incriminatrice dell'"abuso di ufficio" favorisce l'espandersi di questa tendenza giuridico-culturale: sempre più sovente l'accertamento della sussistenza dell'atto o del "comportamento amministrativo" illegittimo conduce il P.M. all'automatica incriminazione per abuso d'ufficio dell'Amministratore.

Tale imputazione tende - cioè - ad essere considerata la logica (ed ineludibile) "risposta" dell'Ordinamento ad ogni "fatto di cattiva amministrazione".

L'attività (amministrativamente) "illegittima" tende dunque a diventare, nella comune coscienza giuridica (oltreché nell'immaginario collettivo), uno fra i più significativi indici rivelatori della condotta penalmente rilevante; e molto spesso l'"eccesso di potere" - categoria del diritto amministrativo volta a definire un "vizio invalidante dell'atto amministrativo" finisce per essere "identificato" (e dunque confuso) con l'"abuso di ufficio" (e cioè con fatti di reato).

Il fenomeno è, come si accennava, preoccupante sia in quanto introduce nella dogmatica giuridica elementi di contraddizione e di illogicità, sia in quanto -più concretamente- inizia ad infondere negli Amministratori -anche in quelli onesti- un logico senso di disagio (se non proprio di sconforto) che li rende profondamente insicuri ed eccessivamente vulnerabili nell'esercizio delle loro funzioni.

Stando così le cose, prima che il "terrore" determini l'esodo degli Amministratori "superstiti" e la definitiva paralisi dell'Amministrazione, appare necessario avviare un generale ripensamento volto a correggere -alla luce dei principi generali- la descritta tendenza inquisitoria; e ciò -beninteso- nell'interesse della Pubblica Amministrazione oltreché della stessa Giurisdizione intesa come funzione imparziale e perciò stesso equilibrata e fisiologicamente apolitica.

E' appena il caso di ricordare, al riguardo, sottolineando a chiare lettere, che l'"illegittimità amministrativa" non coincide affatto con la "illiceità penale" (della quale talvolta costituisce -invece- un mero presupposto).

E' fin troppo evidente (e noto) come "dietro" comportamenti amministrativi formalmente legittimi, possano "nascondersi" fattispecie di reati (sia contro la P.A., sia anche in danno dei cittadini soggetti al potere amministrativo); ed è parimenti evidente come -viceversa- comportamenti pur macroscopicamente illegittimi possano non integrare alcuna fattispecie di reato.

Ciò avviene per due ordini di motivi.

Innanzitutto perché nel nostro Ordinamento non può esservi reato senza dolo (generico o specifico che sia, secondo la previsione normativa che lo concerne), laddove -invece- l'illegittimità si perfeziona a prescindere da tale elemento.

In secondo luogo in quanto -nel sistema della legge- l'illegittimità amministrativa si risolve in una causa virtualmente invalidante dell'atto amministrativo (nè più né meno di come lo è l'annullabilità nel diritto civile), e non già in un giudizio di disvalore nei confronti di una condotta umana.

Ed anzi, a ben guardare, il "vizio" dell'atto amministrativo costituisce, nel nostro Ordinamento un fatto che lo stesso Legislatore ha considerato come quasi "fisiologico" (e per certi aspetti ineluttabile); un atto - cioè - la cui "portata effettuale" -pur se certamente "dirompente" -non può essere lontanamente paragonata (né tantomeno acriticamente "parificata") alla patologica "carica distruttiva" del reato.

Basti riflettere al riguardo, per rendersene conto, sulla regola -propria del diritto amministrativo- del c.d. "consolidamento" dell'atto illegittimo non impugnato.

Se una fondamentale e fin troppo nota regola del diritto amministrativo impone che l'atto non impugnato divenga esecutivo (e dunque addirittura "esecutorio") ancorchè illegittimo, non può che inferirsene che il "giudizio di disvalore" in ordine ad esso non è in alcun modo omologabile a quello che si riconnette al fatto di reato (i cui effetti, per una regola esattamente inversa, devono sempre essere "sanzionati" e -nei limiti del possibile- rimossi).

E del resto, se la errata equazione fra illegittimità amministrativa e illiceità penale dovesse alla fine prevalere, se ogni provvedimento illegittimo si dovesse tramutare in reato di abuso d'ufficio, ciascun Amministratore finirebbe con il passare l'intera sua vita sotto processo.

E, in fin dei conti, tale triste destino dovrebbe "toccare" anche ad ogni Giudice: che cosa è, infatti, una sentenza riformata se non un atto illegittimo? e che cosa è un ordine di custodia cautelare revocato per difetto dei presupposti se non un atto illegittimo (viziato -nella specie- da eccesso di potere)?

Ma -colmo dei colmi- se la legge fosse veramente eguale per tutti lo stesso destino (di vedersi contestata l'illegittimità in veste di abuso d'ufficio) potrebbe finire per non risparmiare alla fine -pesante legge del contrappasso!- nemmeno i Pubblici Ministeri: che cosa è infatti una prova inutilizzabile (in quanto assunta illegalmente) se non -ancora una volta- un atto illegittimo?

In conclusione, la prima regola -oggi troppo spesso dimenticata- da ripristinare per ricondurre il sistema in equilibrio ("rinormalizzandolo" e rasserenando gli animi), è che l'atto illegittimo non costituisce, di per sé, reato; e che l'Amministratore che lo adotta non è perciostesso automaticamente incriminabile o perseguibile.

In tal senso sarebbe opportuno che il Legislatore rendesse definitivamente ed espressamente normativo quel prudente ed equilibrato orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione secondo cui in tema di "abuso d'ufficio" l'illegittimità dell'azione amministrativa costituisce solamente uno -e dunque non l'unico- dei presupposti o comunque degli elementi costitutivi della condotta penalmente illecita.

Principio che la stessa Suprema Corte ha inteso "rafforzare" -a fronte di una sempre minor attenzione accordata dai giudici di merito all'elemento soggettivo (che sempre più tende ad essere "presunto")- allorquando ha statuito che la mera "violazione di legge" non è di per sé sufficiente ad integrare la fattispecie dell'"abuso", essendo all'uopo necessario un "quid pluris" (consistente nello sviamento dalla causa tipica del potere esercitato oltrecchè nel danno ingiusto prodotto).

Occorrerebbe dunque statuire inequivocabilmente che nell'ipotesi prevista dall'art. 323 cod. pen., l'accertamento della sussistenza del reato deve sempre fondarsi su un duplice e rigoroso giudizio, volto -da un lato- a verificare la legittimità dell'"azione amministrativa", e - dall'altro - a stigmatizzare l'elemento psicologico caratterizzante la condotta dell'Amministratore.

Detto questo, resta tuttavia impregiudicata un'altra grave questione: quella di stabilire quale sia il giudice naturalmente competente a qualificare come "illegittimo" il comportamento amministrativamente -e dunque a questo punto anche "penalmente"- rilevante.

La questione non è di poco conto, se si pensa che da tale qualificazione dipende sovente la sussistenza o meno del reato.

Ciò, ad esempio, è quanto avviene proprio con riferimento al già più volte menzionato reato di abuso d'ufficio, ove dall'accertamento dell'illegittimità dell'azione amministrativa -questione per certi aspetti pregiudiziale- dipende la connotazione dell'elemento obiettivo del reato in termini di abuso.

E si giunge così -per connessioni logiche successive- a trattare di un altro preoccupante fenomeno giuridico cui si assiste quotidianamente: quello del contrasto di opinione (e di giudizio) fra Giudici penali (o comunque fra "Inquisitori") e Giudici Amministrativi in ordine ai comportamenti che gli Amministratori -o anche i "semplici" cittadini- tengono "nei confronti" della P.A., e viceversa.

Accade infatti sovente che il Pubblico Ministero, il GIP ed Giudice penale ritengano violata la norma amministrativa -e pertanto ciascuno secondo le proprie competenze rispettivamente accusi, incrimini e poi condanni (per "abuso d'ufficio") l'Amministratore- laddove invece il Giudice amministrativo afferma (o, ciò che è peggio, abbia già affermato ) che il comportamento amministrativo è stato perfettamente conforme al dettato normativo.

Tale fenomeno investe -come si accennava- non soltanto gli Amministratori, ma tutti i cittadini che si trovino ad instaurare rapporti con la P.A.

E qui la questione si allarga anche a fattispecie che nulla hanno a che vedere con l'abuso d'ufficio, ciò che evidenzia come il problema della relazione fra illegittimità amministrativa ed illiceità penale sia di portata generale.

Accade sovente infatti, di fronte ad una medesima fattispecie, che laddove i Giudici Amministrativi ritengono che il comportamento del cittadino sia lecito (e che sia invece correlativamente illegittimo quello tenuto dalla P.A.), i Giudici penali -viceversa- lo condannano.

Potrebbero farsi al riguardo numerosi esempi in materia di diritto urbanistico, e fra essi quello del caso del cittadino che viene condannato per aver edificato in assenza di concessione, pur se il Giudice amministrativo abbia statuito (o statuisca) nel senso che tale concessione non è richiesta dalla legge.

Altri numerosi esempi di contrasto potrebbero essere colti dal campo dell'attività sanzionatoria della P.A.: anche in questo settore può facilmente accadere che le valutazioni del Giudice Amministrativo e del Giudice penale -in ordine sia alla "condotta" del soggetto nei cui confronti la sanzione è stata (o avrebbe dovuto essere) inflitta, sia in ordine al correlativo comportamento amministrativo- vengano a "cozzare" insanabilmente ed irrimediabilmente, senza che tale situazione conflittuale (quantomeno sul piano logico) preluda a confronti risolutivi.

I fenomeni testé descritti, espressione di un'unica tendenza di politica giudiziaria consistente nel far prevalere -in ultima analisi- il "potere" sanzionatorio del Giudice penale su quello dei Giudici specializzati, evidenziano elementi di profonda irrazionalità ormai presenti nel nostro sistema giuridico.

Ed invero, non v'è chi non veda come -in omaggio alla logica oltrecchè al principio del rispetto delle competenze- il Legislatore dovrebbe ispirarsi ad un principio esattamente opposto a quello che fino ad oggi "regola" i rapporti fra giurisdizioni: quanto più le categorie dell'"illegittimità amministrativa" e dell'"illiceità penale" tendono ad omologarsi -e si è visto quanto ciò sia pericoloso e contraddittorio- tanto più il "giudice specializzato" dovrebbe essere chiamato ad avere una maggiore "voce in capitolo".

Il principio dovrebbe essere - cioè - quello della "prevalenza" del giudice specializzato; con l'ovvio corollario che il giudice naturalmente competente -in quanto a ciò istituzionalmente vocato- ad accertare se la normativa amministrativa sia stata violata, dovrebbe essere proprio quello amministrativo (ferma restando la competenza di quello penale per l'accertamento dei fatti e per la valutazione dell'elemento psicologico).

E ciò, beninteso, anche quando elemento costitutivo della fattispecie penale sia non già un vero e proprio "atto amministrativo" (strictu sensu inteso), ma anche un semplice "comportamento amministrativo" viziante.

Occorre non dimenticare, infatti, che il Giudice Amministrativo giudica -per sua funzione istituzionale- non soltanto degli atti, ma anche dei comportamenti amministrativi illegittimi.

Ciò è quanto accade, ad esempio, nel caso di violazione di interessi pretensivi, laddove il Giudice amministrativo censura -stigmatizzandolo come illegittimo- non già un provvedimento -che è proprio ciò che in tale ipotesi manca- ma il comportamento omissivo della Pubblica Amministrazione.

Sennonché, sembra non la pensi così il nostro Legislatore che nel "nuovo" codice di procedura penale ha introdotto norme che appaiono studiate appositamente per "favorire" (ed "acuire") il contrasto fra giudicati e per aumentare la prorompente incidenza, in ambito giurisdizionale, del giudice meno specializzato.

La nuova disciplina delle "questioni pregiudiziali" e dell'efficacia del giudicato penale nel giudizio amministrativo è al riguardo emblematica del particolare "animus" che sembra aver alimentato la fantasia del Legislatore.

In applicazione delle nuove regole, può infatti accadere che di fronte ad una complicata questione amministrativa dalla cui soluzione dipenda la sussistenza del reato (e dunque la eventuale condanna del cittadino soggetto al potere amministrativo, o dell'Amministratore), il giudice penale decida di non devolvere il relativo giudizio al giudice naturalmente competente a risolverla; e che "vada avanti" fino alla "sua" sentenza (espressione del "suo" esclusivo modo di interpretare il diritto amministrativo).

Può accadere -dunque- che la "qualificazione giuridica" di un medesimo fatto o di una medesima condotta sia differente da Giudice a Giudice e che pertanto -come si è già visto- un cittadino o un amministratore venga di fatto "condannato" dal giudice penale e, per così dire, "assolto" (s'intende: virtualmente) da quello amministrativo.

Può accadere, in definitiva -come spesso accade- che l'Amministratore o il cittadino non comprenda come mai un suo comportamento possa essere giudicato in modo diametralmente opposto da due organi giudiziari del medesimo Stato (recte: Ordinamento):

Sembra che nel Legislatore sia prevalso, in ultima analisi, il desiderio di processi rapidi (ancorchè sommari) e di punizioni esemplari (ancorchè basate sulla difforme applicazione del diritto, "in barba" a qualsiasi esigenza nomofilattica).

Se questa è l'attuale situazione -drammatica per l'Amministratore così come per il cittadino (soprattutto per quelli onesti)- sembra opportuno avviare un profondo processo di ricostruzione sistematica e di ripensamento degli istituti che regolano i rapporti fra i vari "segmenti" del potere giudiziario.

Occorre trovare soluzioni che riconducano ad unità logica i vari giudizi dei differenti Organi chiamati a "jus dicere".

Le soluzioni, in astratto, sono molteplici, per certi aspetti, cumulabili (o comunque "componibili").

La prima potrebbe consistere nella "restaurazione" del vecchio sistema delle c.d. "pregiudizialità", razionalizzato e corretto -tuttavia- in modo da non determinare eccessive lungaggini processuali.

Si potrebbe al riguardo pensare ad un congegno devolutivo più rapido, simile al "rinvio pregiudiziale" già operante -in base alle norme del diritto comunitario- per la c.d. "pregiudiziale comunitaria".

Il giudice amministrativo potrebbe essere chiamato a pronunziarsi interinalmente ed in tempi brevi -così come accade in materia di sospensiva- in ordine alla legittimità o meno dell'attività provvedimentale o materialmente comportamentale della P.A. in tutti quei casi in cui la stessa costituisca elemento integrativo -sotto il profilo puramente obiettivo- della fattispecie penale.

Altra soluzione potrebbe consistere nell'istituzione di Organi giurisdizionali a composizione mista, con la partecipazione integrativa di giudici specializzati.

Il che sotto il profilo della legittimità costituzionale non trova ostacoli (quantomeno insormontabili).

Ed è proprio quest'ultima -probabilmente- la soluzione migliore.

Soltanto essa riconduce ad unicità la funzione giurisdizionale ricomponendo quella scissione -troppo spesso artificiosa- fra "fatto" e "diritto" che difficilmente riesce a cogliersi nella valutazione dell'eccesso di potere.

E del resto -inutile nascondercelo- se unica è la funzione giurisdizionale; se unico ed inscindibile è il "fatto"; se arduo appare troppo spesso distinguere il "giudizio sul fatto" dal "giudizio di diritto" (ed a maggior ragione nel caso dell'eccesso di potere, ove elementi normativi ed elementi fattuali si intrecciano indissolubilmente); perché continuare a tenere divisi gli Organi giudicanti? perché non unificarli in un unico sforzo comune per un giustizia più comprensibile e dunque più giusta?

Ma v'è un altra questione che merita di essere affrontata: quella della partecipazione del P.M. al processo amministrativo.

Accade sovente che nel corso del giudizio di legittimità affiorino atti e comportamenti che si risolvono al tempo stesso in atti illegittimi ed in elementi costitutivi di fattispecie di reato.

E che, ciò che costituisce una grave lacuna del sistema, non vi sia nessuna presenza giudiziaria -in Aula o in Camera di Consiglio- preposta a tutelare l'interesse dell'Ordinamento.

Interesse all'annullamento degli atti illegittimi non impugnati; interesse all'accertamento della verità che si cela dietro i provvedimenti; interesse alla corretta applicazione della legge...

Ma, a ben guardare, è proprio questo il campo specifico dell'azione del P.M.

E' fin troppo evidente che la partecipazione del P.M. nel processo amministrativo -di un P.M. reclutato anche fra giudici che per vocazione istituzionale siano esperti nel diritto amministrativo- e la devoluzione a tale Organo del potere di impugnare, nell'interesse della legge, i provvedimenti amministrativi illegittimi nonché -soprattutto- di esercitare l'azione penale (nei casi in cui l'illegittimità costituisca elemento integrativo di reato) apporterebbe di certo un contributo di coerenza e di professionalità all'accertamento della verità ed al perseguimento della giustizia.

Che è ciò a cui tutti aneliamo.

Com'è agevole rilevare, le soluzioni per migliorare il sistema -oggi contraddittorio e confuso- delle relazioni fra illegittimità amministrativa ed illiceità penale, e dunque fra processo penale e processo amministrativo, non mancano.

Resta da verificare se manchi, invece, la volontà politica di sancirle, e per quale oscura -ma forse non tanto oscura- ragione.

Carlo Modica