AFFARI
ISTITUZIONALI - 049
Corte di Cassazione, Sezione Terza penale, sentenza 25
giugno - 2 ottobre 2003, n. 37508
(Presidente Toriello, Relatore
Postiglione; Pm - difforme – Iacoviello; Ricorrente Papa)
Materiale da demolizione inerti – Riutilizzo senza trattamento - Rifiuti -
Esclusione
Va esclusa la natura di rifiuto ai detriti da demolizione che non contengono
materiali disomogenei significativi con conseguente loro riutilizzabilità senza
preventivo trattamento.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Fatto e diritto
Personale del Corpo Forestale
dello Stato, in data 19.9.2002, sequestrava un’area riempita con materiali
inerti di demolizione, appartenente al Consorzio Intercomunale per il
Disinquinamento Ambientale della Provincia di Macerata, in località Piane di
Chienti del Comune di Tolentino.
La Polizia giudiziaria riteneva che gli inerti utilizzati per l’ampliamento
del piazzale del Consorzio predetto, costituivano rifiuti e che fosse
ravvisabile il reato di cui all’art.
51, 1° comma D. Lg.vo 22/77.
Il Pubblico Ministero chiedeva la convalida del sequestro, ma il G.I.P. con
provvedimento del 21.9.2002, rigettava la richiesta, osservando che il
materiale utilizzato non poteva essere classificato come rifiuto e, comunque,
era stato utilizzato secondo un criterio di compatibilità ambientale.
Su appello del P.M., il Tribunale di Macerata, con ordinanza del 16.10.2002,
convalidava il sequestro preventivo, ravvisando la possibile violazione
dell’art. 51, primo comma del D.Lg.vo 22/97, nonché del D.M. 5.2.1998.
Secondo il Tribunale la nuova legge 178/2002 con l’art. 14 non avrebbe
modificato la precedente disciplina giuridica, anche nell’ipotesi di
riutilizzo di inerti in loco.
Contro l’ordinanza citata ha proposto ricorso per Cassazione l’indagato Papa
Primo, deducendo violazione dell’art. 14 legge 178/2002, nonché carenza di
motivazione sulle esigenze cautelari.
Il ricorso è fondato.
Risulta dal provvedimento impugnato e dagli atti che i materiali inerti erano scaturiti dalla parziale demolizione di un preesistente muro dello stabilimento del Consorzio Intercomunale Disinquinamento Ambientale della Provincia di Macerata (Con.Sma.ri) e che furono in loco immediatamente reimpiegati (senza alcun trattamento), quali sottofondo di un piazzale appartenente allo stesso Consorzio, all’interno della recinzione: invece di riempire il lieve dislivello con materiali esterni (esempio, pietre da qualche cava), l’indagato ritenne di poter reimpiegare sul posto i materiali di demolizione del preesistente muro (che era stato demolito per altre finalità), allargando il piazzale esistente di alcuni metri (circa 20 per 15), fino al muro di recinzione, ravvisando la compatibilità ambientale dell’opera.
In relazione a questo fatto si è
posto il problema della applicabilità della nuova norma di cui all’art. 14
legge 178/2002 e del rapporto con il regime preesistente.
La Corte osserva che contrariamente a quanto ritenuto nella ordinanza
impugnata, la nuova norma – del tutto legittima quale espressione della
volontà del Parlamento – fornisce una “interpretazione autentica” della
nozione di rifiuto, pur senza innovare radicalmente rispetto alla normativa
comunitaria e nazionale. L’elemento di novità non è costituito dalla
restrizione del concetto di rifiuto, ma dalla eliminazione degli elementi di
incertezza derivanti da un eccesso di dilatazione della nozione medesima. La
norma mira a favorire il riutilizzo, nel senso di escludere il concetto di
rifiuto, allorché il soggetto economico interessato abbia deciso di non
disfarsi di beni, sostanze e materiali di produzione e di consumo aventi
ancora una valenza economica.
La norma precisa le due condizioni per escludere la nozione di rifiuto:
a) se beni, sostanze e materiali possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diurno ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente;
b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diurno ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell’allegato C del decreto legislativo n. 22.
Da tale impostazione, consegue che per escludere una sostanza, un bene od un materiale dalla nozione giuridica di rifiuto, occorre che il suo riutilizzo sia, non solo possibile, ma, soprattutto, certo e che esso avvenga senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero, tra quelle contemplate dall’allegato C al D.Lgs. n. 22/97, anche se ha subito un mero “trattamento preventivo”. La norma nazionale di interpretazione autentica non appare in contrasto con i principi comunitari, così come ribaditi in una recente sentenza della Corte di Giustizia in data 18 aprile 2002.
La Corte di Giustizia era
chiamata a decidere se i detriti provenienti da una cava di granito,
suscettibili di essere riutilizzati come ghiaia o materiale di riporto per
sottofondi stradali od altro, dovessero essere considerati residui derivanti
dall’attività (principale ) di gestione della cava (e, quindi, rifiuti)
ovvero, quali materie prime riutilizzabili. La Corte ha precisato che “è
rifiuto tutto ciò che viene prodotto accidentalmente nel corso della
lavorazione di una materiale o di un oggetto e che non è il risultato cui il
processo di fabbricazione mira direttamente”.
Poiché, tuttavia, tale circostanza, di per sé, non esclude che l’impresa che
ha prodotto il bene o la sostanza di cui trattasi non “intenda disfarsene”, la
Corte ha ritenuto che l’obbligo di interpretare in maniera estensiva la
nozione di rifiuto, (obbligo derivante dalla finalità, imposte dalla medesima
direttiva 75/442/CEE, di tutelare i beni primari della salute e
dell’ambiente), trova un limite nelle “situazioni in cui il riutilizzo di un
bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo
senza trasformazione preliminare e nel corso del processo di produzione,
Appare, quindi, evidente che, oltre al criterio derivante dalla natura o meno
del residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di
riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare,
costituisce un secondo criterio ai fini di valutare se essa sia o meno un
rifiuto ai sensi della direttiva 75/442”.
Accertato che l’integrale riutilizzo dei detriti provenienti dalla predetta
cava non era previsto come certo, né tanto meno come prevedibile, la Corte di
Giustizia, ha ritenuto che essi dovessero essere qualificati come rifiuti.
I criteri cosi individuati dal Giudice Comunitario possono, pertanto,
sintetizzarsi come segue:
a) la circostanza che un materiale possieda determinate caratteristiche merceologiche che lo rendano commerciabile, non ne esclude, comunque, la natura di residui di produzione (id. est, rifiuti);
b) perché un materiale possa essere considerato, a tutti gli effetti, come materia prima secondaria, occorre che il suo riutilizzo non sia solo eventuale ma certo senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione e che, inoltre, sia integrale.
Nel caso che interessa il presente giudizio i detriti erano conseguenza di un processo di produzione (comprendente la demolizione di un muro ed il reimpiego integrale sul posto), senza trasformazione preliminare, con riutilizzo certo in attività compatibile (materiale di riporto per sottofondo di un piazzale antistante). Il materiale presente nel muro demolito (compresi alcuni blocchi di cemento misto a ferro) non presentava carattere di disomogeneità, né era mescolato a sostanze diverse (tipo eternit, gomme di veicoli e comunque sostanze estranee a quelle già presenti nell’opera demolita), sicché non si poneva in concreto un problema di preventivo trattamento per non compatibilità ambientale. Il materiale non è stato trasferito da un soggetto (produttore) ad un altro (utilizzatore), perché è mancata la volontà di disfarsi di esso. Il legislatore nazionale è già intervenuto con la legge 443/2001 escludendo le “terre e rocce da scavo”, anche di gallerie, dall’ambito dei rifiuti e dalla relativa normativa (D.Lg.vo 22/97), perfino nell’ipotesi che siano state contaminate durante il ciclo produttivo (purché non oltre determinate concentrazioni).
Si consente in tal modo il
riutilizzo di materiali derivanti da attività di escavazione, perforazione e
costruzione.
Certamente esiste una differenza con i materiali di demolizione degli edifici,
ossia con i cosiddetti inerti. Tale differenza non comporta una ontologica
diversità, posto che il riutilizzo di rocce e terre di scavo può avvenire – a
certe condizioni – anche se esista una contaminazione.
Nel caso concreto, i detriti di demolizione non contengono materiali
disomogenei significativi sicché alla luce dell’art. 14 L. 178/2002 e
dell’indirizzo comunitario sopracitato, si può pervenire allo stesso risultato
di cui alla L. 443/2001, escludendo la natura di rifiuto, secondo un criterio
non astratto di valutazione. Manca la prova di un reale pericolo per
l’ambiente ed il riutilizzo è avvenuto secondo i principi enunciati.
P.Q.M
La Corte
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata.
IL COMMENTO
PER IL SETTORE DELLE COSTRUZIONI UNA RILETTURA DELLA NORMATIVA SULLA GESTIONE
DEI MATERIALI DA DEMOLIZIONE
(*) Pierlorenzo Boccanera
Uno stop all’eccesso di
dilatazione del concetto di rifiuto.
Nell’ordinanza impugnata si era supposta l’esistenza di un obbligo giuridico
di disfarsi dei materiali previsti nel DM 5.2.1998 e cioè di tutti i materiali
esistenti nessuno escluso, rendendo di fatto inapplicabile l’art. 14 della
legge 178/2002 e le stesse interpretazioni più restrittive di fonte
comunitaria.
Il massimo Consesso nella sua rivisitazione del concetto di rifiuto in
generale e dei materiali da demolizione in particolare ha, dapprima, superato
la lettura estrema offerta, nel caso di specie, al concetto di rifiuto, ed ha
quindi introdotto elementi e considerazioni innovative per tutte le
fattispecie astratte.
La Corte ha ritenuto che non si sia in presenza di un rifiuto ogni qualvolta
il bene o il materiale possa essere riutilizzato e sia effettivamente ed
integralmente riutilizzato senza che si renda necessario far ricorso ad alcuna
delle operazioni di recupero di cui all’allegato “C” del Ronchi.
Fin da ora è facile prevedere che il nuovo campo su cui si affronteranno i
giudici di merito e di legittimità sarò proprio costituito dall’individuazione
dei criteri di riferimento che devono consentire di rilevare i casi in cui sia
o meno necessaria ad una qualche operazione di recupero. Certo è che non potrà
sostenersi che le dimensioni dei materiali devono rispondere a determinati
parametri, così come è altrettanto certo che i detriti da demolizione, privi
di materiali disomogenei significativi, non sono classificabili come rifiuti.
La Cassazione entrando ulteriormente nel merito della fattispecie sottopostale
ha precisato, inoltre, che devono intendersi come tali, i materiali in cui vi
sia presenza di sostanze completamente avulse (eternit, gomme) e, comunque
sostanze estranee a quelle già presenti nell’opera demolita, riconoscendo
natura omogenea, e quindi estranea al concetto di rifiuto, anche ai blocchi di
cemento misto a ferro che poi, quest’ultimo, è di fatto materiale normalmente
rinvenibile negli interventi di demolizione di strutture edili.
Altro tema di confronto sarà costituito dal come e dal se dover offrire la
prova di questo riutilizzo, onere che non dovrà certo gravare
sull’imprenditore che non sarà tenuto alla formazione del formulario ed il
quale non potrà certo essere chiamato a fornire alcuna prova negativa.
Dovendo riconoscere il diritto al riutilizzo di tali beni e/o materiali dovrà
essere tollerato un deposito temporaneo nel luogo in cui essi sono prodotti
per poi essere riutilizzati anche in altro sito, ne consegue che il deposito a
tempo indeterminato o irragionevolmente lungo, in attesa di un possibile
riutilizzo, potrebbe essere condotta che renderebbe applicabile la normativa
sui rifiuti.
La stessa Corte di Giustizia nel trattare recentemente di tali analoghi
concetti (C.Giust. Sez. 6 del 11.9.2003) ha fatto riferimento ad un ulteriore
requisito rappresentato dal “riutilizzo del beni nel medesimo processo di
produzione”.
L’impresa di costruzioni ha un processo di produzione articolato,
rappresentato sia dalla demolizione di un’opera che dalla formazione di
massicciate stradali; saremmo, comunque in presenza di un “medesimo processo
di produzione” ancorché tali operazioni dovessero avvenire non nell’ambito
dello stesso cantiere ma dovessero richiedere, ad esempio l’impiego di un
autocarro per porre in opera detriti ottenuti in un altro sito.
L’art. 14 legge 178/2002 Per la
Cassazione la novella pur non modificando radicalmente la nozione di rifiuto
rispetto alla normativa comunitaria e nazionale, e non entrando in contrasto
con essa, ha il pregio di aver eliminato tutta una serie di elementi di
incertezza che hanno esasperato ed eccessivamente dilatato la nozione stessa
di rifiuto. E’ evidente che se il legislatore ha ritenuto di intervenire in
materia è perché si stavano moltiplicando episodi che portavano al blocco di
intere attività a fronte di nessuna pericolosità.
In particolare, dovranno essere valutati tutti i comportamenti del detentore
incompatibili con la destinazione di un bene alla sua funzione originaria o
all'impiego diretto senza alcuna preventiva operazione di recupero.
In conclusione, solo i materiali e le sostanze di cui il detentore si disfi,
abbia intenzione di disfarsi o abbia l'obbligo di disfarsi, nei termini sopra
esposti, soddisfano la suddetta definizione di rifiuto e rientrano nel campo
di applicazione del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 e relativi
decreti attuativi.
* Avvocato