REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia - Sezione staccata di Brescia – ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 1198 del 1993 proposto da ASSOCIAZIONE “C.d.P.",
in persona del legale
rappresentante p.t.,
rappresentata e difesa dall’avv. G.F. ed elettivamente domiciliata presso lo stesso in Brescia, via
...;
contro
COMUNE di CAINO, in persona del Sindaco p.t., costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dall’avv. G.B. ed elettivamente domiciliato presso lo stesso, in Brescia, via ...;
(omissis)
per l’annullamento, previa
sospensione,
a) dell’ingiunzione sindacale 4 giugno
1993, prot. n. 1423, di demolizione opere asseritamente abusive eseguite
presso l’edificio civile insistente sul mappale 91 foglio 11 N.C.T.R.;
b) della diffida sindacale 23 luglio 1993,
prot. n. 1368, al ripristino dell’uso residenziale privato dell’edificio
suddetto;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del
Comune intimato;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno
delle proprie difese e domande;
Vista la propria ordinanza n. 782/93 di reiezione
dell’istanza cautelare;
Vista l’ordinanza presidenziale istruttoria n.
89/98;
Visti gli atti tutti della causa;
Designato relatore, per la pubblica udienza del 9
febbraio 2001, il cons. Renato Righi;
Uditi, alla medesima udienza, l'avv. P. P.,
in sost. dell’avv. G.F., per la ricorrente e l'avv. G.B. per il
Comune resistente;
Ritenuto in fatto ed in diritto quanto segue:
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato il 16 e 17 settembre 1993,
depositato il 27 settembre successivo, la ricorrente impugna i provvedimenti
sindacali di cui in epigrafe, deducendo vari profili di violazione di legge e di
eccesso di potere.
Si è costituito in giudizio l’intimato Comune,
che, preliminarmente, ha eccepito l’inammissibilità del ricorso, chiedendone
altresì la reiezione nel merito, siccome comunque infondato.
In occasione della camera di consiglio del 15
ottobre 1993 la Sezione ha respinto la domanda incidentale di sospensione dei
provvedimenti impugnati.
Con ordinanza presidenziale n. 89/98 sono stati
disposti incombenti istruttori a carico del Comune resistente, esperiti i quali,
la causa è stata fissata per l’odierna udienza pubblica, ove il ricorso è
passato in decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’Associazione ricorrente impugna, sia
l’ingiunzione sindacale 4 giugno 1993, prot. n. 1423, di demolizione opere
asseritamente abusive eseguite nel villino ove la stessa gestisce una comunità
alloggio per il recupero ed il reinserimento sociale di soggetti
tossicodipendenti, sia la diffida sindacale 23 luglio 1993, prot. n. 1368, al
ripristino dell’uso residenziale privato del villino suddetto.
Preliminarmente, occorre darsi carico di sondare
l’eccezione di inammissibilità del ricorso, prospettata dalla difesa del
resistente Comune sul rilievo che, non essendo stato tempestivamente impugnato
il diniego di concessione in sanatoria, a suo tempo richiesta dalla ricorrente
in relazione alle stesse opere e al cambio di destinazione d’uso che formano
oggetto anche dei provvedimenti impugnati in questa sede, non se ne potrebbe più
contestare l’abusività.
L’eccezione va disattesa.
Invero, si deve rilevare che la ricorrente in questa sede non contesta tanto la sanabilità o meno dei lavori e dei comportamenti addebitatigli, quanto piuttosto le conseguenze giuridiche (in particolare, il tipo di sanzione) che da tali fatti il Comune intende trarre, e in ordine alle quali il diritto di difesa della ricorrente medesima va dunque integralmente garantito, sicché resta senza esito il tentativo del suo contraddittore di invocare la decadenza di quel diritto.
Passando al merito delle questioni, viene in considerazione il primo motivo – diretto nei confronti dell’ingiunzione di demolizione - con cui si deducono, tra l’altro, la falsa applicazione dell’art. 7 legge 28 febbraio 1985, n. 47, nonché la violazione degli articoli 10 e 12, stessa legge, oltre alla falsa rappresentazione dei presupposti di fatto.
Le censure sono fondate.
Gli abusi edilizi che vengono contestati nel provvedimento impugnato consisterebbero in ciò:
a) cambio d’uso di un locale della casa, da residenza a laboratorio artigianale;
b) tamponamento di portici mediante vetrate;
c) realizzazione di piccolo manufatto esterno ad uso centrale termica e deposito acqua;
d) ristrutturazione dei servizi igienici nel piano seminterrato.
L’organo comunale ritiene che siffatti lavori
costituiscano una grave difformità rispetto alla licenza edilizia rilasciata in
data 21 gennaio 1964 alla dante causa della ricorrente per la costruzione
dell’edificio di cui trattasi, tant’è vero che al riguardo esso applica la
misura sanzionatoria di cui al citato art. 7 legge n. 47 del 1985.
Tuttavia, dall’esame dei documenti di causa
emerge che i lavori in parola, in realtà, sarebbero o frutto di comportamenti
liberi, o tutt’al più sanzionabili ai sensi dell’art. 10 legge n. 47 del 1985
(opere eseguite senza autorizzazione) ovvero dell’art. 12, stessa legge (opere
eseguite in parziale difformità dalla concessione), ma sicuramente non – come
invece ha ritenuto il Comune – ai sensi del già citato art. 7 (opere eseguite
in assenza di concessione, in totale difformità o con variazioni essenziali).
Come si desume dal progetto depositato,
l’edificio de quo consiste in una villetta che si sviluppa su due piani
(seminterrato di mq. 121,60 e primo piano di mq. 192,12), posta in posizione
isolata e contornata da giardino, in relazione alla quale il Sindaco, in data 29
novembre 1965, ha rilasciato a favore della precedente proprietaria, il
certificato di abitabilità, con l’espressa attestazione che “l’edificio
è adibito ad abitazione” (v. doc. 12 della ricorrente).
Risulta altresì che l’Associazione ricorrente
(che è un organismo non lucrativo di utilità sociale) lo utilizza come sede di
una comunità di accoglienza per 7 od 8 ospiti, volta alla riabilitazione ed al
recupero sociale di soggetti tossicodipendenti, ciò che è certamente conforme
alla destinazione urbanistica dell’immobile.
Né rileva, in contrario, l’adibizione a
piccolo laboratorio artigianale di uno dei locali dell’edificio, perché si
tratta di semplice attività ricreativa od ergoterapica, rientrante nel progetto
educativo perseguito dalla comunità alloggio in questione, non implicante
affatto un mutamento della destinazione d’uso urbanisticamente rilevante.
Del resto, la natura di tale lavori artigianali,
così viene descritta dallo stesso tecnico comunale, nel verbale di sopralluogo
redatto il 27 aprile 1993: “…attività lavorativa consistente nel montaggio
di piccoli oggetti in plastica” (v. doc. 13 della ric.).
Dunque, se proprio non si può assimilarla al bricolage
domestico, si tratta pur sempre di un’attività tipica di una particolare
categoria di lavoratori, vale a dire i lavoratori a domicilio, che il
legislatore ha tutelato (con la legge 18 dicembre 1973, n. 877 e succ.
modificazioni ed integrazioni) appunto sul presupposto che essi svolgano attività
lavorativa nelle proprie abitazioni (senza che questo comporti, per ciò solo,
una trasformazione delle medesime in opifici).
Come si vede, il cambio d’uso del locale
asseritamente adibito a laboratorio artigianale, rappresenta, in realtà, una
condotta libera, non urbanisticamente sanzionabile.
Quanto, poi, agli altri lavori contestati dal Comune si osserva quanto segue.
Per ciò che concerne il tamponamento dei
portici, la tesi difensiva, svolta in via principale dalla ricorrente,
porterebbe a concludere che tale opera non è assoggettabile a concessione
edilizia perché eseguita anteriormente al 1° settembre 1967, quando
l’edificazione fuori dal centro urbano – come nella fattispecie – era
libera.
La ricorrente fornisce anche un principio di
prova per individuare l’epoca dei lavori, in particolare, si tratta delle due
dichiarazioni, rispettivamente, della dante causa della ricorrente (contenuta
nel contratto di compravendita ai sensi dell’art. 40, comma secondo, legge n. 47
del 1985), nonché di quella (sostitutiva di atto notorio) dell’acquirente (v.
documenti 16 e 17 della ric.).
Tuttavia non è necessario approfondire la
questione - che tra l’altro richiederebbe un laborioso accertamento di fatto -
perché è sufficiente osservare (così aderendo alla tesi difensiva sviluppata
in via subordinata dalla ricorrente) che la chiusura del portico non ha comunque
prodotto né un incremento volumetrico dell’edificio né un aumento della sua
superficie, poiché i porticati non destinati all’uso pubblico – come quello
in argomento – già rilevano ai fini del computo del volume e della superficie
delle costruzioni, ai sensi dell’art. 8 delle N.T.A. del P.R.G. nonché
dell’art. 91 del Regolamento edilizio, localmente vigenti (v. doc. 8 della
ric.).
Ciò significa che, anche ammettendo che il
tamponamento del porticato costituisca una difformità dalla licenza edilizia,
essa non potrà che essere qualificata parziale, come tale reprimibile – se
del caso - con la diversa misura sanzionatoria di cui all’art. 12
legge n. 47 del 1985, in luogo di quella irrogata dal Comune, che è viceversa applicabile
nell’ipotesi di totale o essenziale difformità, intendendosi per tale una
modifica che, pur mantenendo le caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o
di utilizzazione del fabbricato autorizzato, realizzi però un aumento
consistente della cubatura o della superficie di solaio (Cfr. articoli 7 e 8 legge
ultima citata).
Anche con riferimento alla realizzazione del
piccolo manufatto esterno (ad uso centrale termica e deposito d’acqua) il
provvedimento repressivo del Comune è fuori misura, perché trattandosi di
impianto tecnologico al servizio di edificio già esistente, esso richiederebbe
la semplice autorizzazione gratuita ex art. 7, comma secondo, lett. a),
decreto-legge 23 gennaio 1982, n. 9, convertito in legge 25 marzo 1982, n. 94, per cui la
corrispondente sanzione sarebbe – semmai - quella di cui all’art. 10 legge n.
47 del 1985 (opere eseguite senza autorizzazione).
Circa, poi, la ristrutturazione dei servizi
igienici nel piano seminterrato va rimarcato che si versa in un’ipotesi di
opere interne che, a termini dell’art. 26
legge n. 47 del 1985, non sono soggette
a concessione né ad autorizzazione, ma alla semplice presentazione di una
relazione tecnica, la cui eventuale mancata presentazione il Comune può
sanzionare esclusivamente con l’irrogazione della pena pecuniaria di cui al
citato art. 10, stessa legge, ridotta di un terzo.
Con il secondo motivo – proposto avverso la diffida sindacale al ripristino dell’uso residenziale privato della villa de qua – si deducono la violazione dell’art. 221 del T.U.LL.SS. (approvato con R.D. 27 luglio 1934, n. 1265) nonché la falsa rappresentazione dei presupposti di fatto e il difetto di attività istruttoria.
Le censure sono fondate.
Nel dispositivo del provvedimento impugnato
testualmente si “diffida” l’Associazione ricorrente “a voler
interrompere l’improprio uso di residenza collettiva e laboratorio
della casa di civile abitazione sita in via Nazionale… ripristinandone
l’originario uso di residenza privata giusta il certificato di
abitabilità rilasciato in data 29.11.1965”.
Ciò, sul presupposto (come si legge nella
motivazione del provvedimento stesso) “che l’edificio viene abusivamente ed
impropriamente adibito a residenza collettiva ed a laboratorio pur
in assenza dei necessari requisiti statici – tecnico/funzionali ed
igienici”.
Si è già vista sopra l’assoluta irrilevanza
urbanistico-edilizia dell’asserito cambio d’uso del locale adibito a
laboratorio.
Ma anche la definizione di una comunità alloggio
di 7 o 8 persone, quale “residenza collettiva” (come tale abusiva), da
distinguersi dalla “residenza privata” (invece autorizzata in virtù del
certificato di abitabilità) non ha alcun giuridico fondamento. In effetti,
anche in base al senso comune, non si comprende in che cosa la prima possa
differenziarsi (in termini di abitabilità dei locali occupati) rispetto, ad
esempio, ad una famiglia particolarmente numerosa.
Né il richiamato art. 221 T.U.LL.SS., può fornire una base testuale alla distinzione arbitrariamente operata dal Comune.
Al riguardo, è interessante analizzare la
giurisprudenza penale della Corte di Cassazione. Ciò, in quanto la violazione,
da parte del proprietario di un edificio, delle disposizioni del citato art. 221
T.U.LL.SS. costituiva reato, prima che la relativa sanzione fosse depenalizzata
in forza dell’art. 70 decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507.
“Quando sia riconosciuta l’abitabilità di un immobile, che va riferita a
qualunque tipo di rapporto (alloggio, lavoro, ricreazione) tra l’ambiente e la
persona, che comporti la presenza di questa in quello, anche discontinua, tendenzialmente permanente e comunque non
episodica, non si richiede né che l’autorizzazione sia ristretta ad un uso
determinato o esclusivo, né che un successivo mutamento dell’uso iniziale o
prestabilito debba dar luogo ad una nuova ed apposita autorizzazione per l’uso
immutato dell’immobile, il quale potrà ricadere semmai nell’ambito di altre
discipline (igiene del lavoro, ecc.)” (Cass. pen. Sez. III, 27 novembre 1985,
n. 11515 ; Cfr., altresì, idem 17 luglio 1980, n. 8949; id.
17 marzo 1981, n. 2385).
“La ratio del certificato di abitabilità va individuata nella necessità di protezione degli interessi igienici, sanitari e urbanistici e a tal fine, prima del rilascio del predetto certificato, deve essere accertata la sussistenza delle condizioni di salubrità, stabilità e sicurezza dell’edificio. Non è pertanto richiesto dalla legge che l’utilizzo dei locali sia ristretto ad un uso determinato od esclusivo né che un mutamento di utilizzo che non comprometta le condizioni suddette debba necessitare di una ulteriore autorizzazione” (Cass. pen. Sez. III, 7 febbraio 1997, n. 4311; Cfr., altresì, idem 23 dicembre 1997, n. 3905).
A quest’ultimo proposito, va rimarcato che
l’affermazione contenuta nella motivazione del provvedimento impugnato,
secondo cui il presunto mutamento di destinazione dell’edificio sarebbe
avvenuto “pur in assenza dei necessari requisiti statici –
tecnico/funzionali ed igienici” risulta del tutto apodittica e non supportata
da adeguate valutazioni tecniche, come è dimostrato dal fatto che il Comune non
ha esibito alcun accertamento o indagine, svolti sul punto specifico, nemmeno a
seguito dell’ordinanza presidenziale istruttoria n. 89/98.
Non solo, ma simile affermazione è smentita sia
dal parere del competente organo tecnico pubblico che dalle consulenze di parte,
acquisiti tra i documenti di causa.
E’ stato infatti depositato l’atto, in data
10 agosto 1994, del Commissario straordinario dell’U.S.S.L. n. 38 (v. doc. 15
della ric.), che nei confronti della struttura di cui trattasi espressamente
esprime “parere positivo per quanto di competenza sulla sussistenza dei
requisiti igienici per l’agibilità”, rinviando per quanto concerne
“l’abitabilità” al menzionato certificato rilasciato dal Sindaco nel
1965.
Risulta inoltre prodotta una perizia, asseverata
in data 8 giugno 1993, a firma dell’architetto M. che, relativamente
alla villa de qua, così conclude: “La struttura ad uso civile presenta
i requisiti strutturali ed igienico sanitari per un possibile utilizzo ai fini
della realizzazione di una comunità alloggio finalizzata al recupero di persone
tossicodipendenti con una capacità di 6/8 unità ospitate” (v. doc. 11 della
ric.).
E’ stata infine esibita una relazione peritale dell’ingegner T. in data 12 settembre 1993, le cui conclusioni sono esplicitamente affermative in ordine al quesito: “Se l’immobile in oggetto possiede i requisiti minimi essenziali sotto l’aspetto strutturale, impiantistico e igienico-sanitario per poterlo destinare allo svolgimento di attività in materia di riabilitazione e reinserimento sociale dei tossicodipendenti” (v. doc. 14 della ric.).
Alla stregua delle considerazioni suesposte, il ricorso va pertanto accolto, con susseguente annullamento dei provvedimenti impugnati, restando assorbite le altre censure non espressamente esaminate.
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la
Lombardia - Sezione staccata di Brescia – accoglie il ricorso in epigrafe e,
per l’effetto, annulla i provvedimenti sindacali impugnati.
Condanna il resistente Comune a rifondere alla
ricorrente le spese di giudizio, che liquida in complessive £. 4.000.000
(quattro milioni), oltre agli oneri di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dalla Autorità Amministrativa.
Così deciso in Brescia, il 9 febbraio 2001 dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia