EDILIZIA - 010
Consiglio di Stato, sez. V,
20 marzo 2000, n. 1507
(relat. Monticelli)
Le condizioni e le prescrizioni apposte alle concessioni e alle autorizzazioni
edilizie non possono derogare dalle previsioni della disciplina urbanistica.
In particolare, apporre (o imporre) al provvedimento la clausola che si tratti di
manufatto "precario", non consente di superare la disciplina urbanistica
vigente, il contrasto con la quale non è ammesso nemmeno in caso di supposta (o imposta)
precarietà.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Quinta Sezione ha pronunciato la seguente
decisione
sul ricorso in appello n. 4092/1994, proposto dalla K.T. s.a.s. di L.M., in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti L.A., G.G. e L.V. ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest'ultimo in ...
contro
la Provincia di Genova, in persona del Ministro pro-tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti A.B. ed E.R., presso il secondo elettivamente domiciliata in ...
per l'annullamento
della sentenza del T.A.R. della Liguria, Sezione I, 16 febbraio 1994 n. 94;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della Provincia di Genova;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore, alla pubblica udienza del 9 novembre 1999, il Consigliere Caro Lucrezio
Monticelli;
Ritenuto e considerato in fatto ed in diritto quanto segue:
FATTO
La società appellante impugnava la sentenza indicata in epigrafe, con la quale è stato respinto il ricorso dalla medesima proposto avverso il decreto del Presidente della Giunta provinciale 9 aprile 1992 n. 16393, avente ad oggetto l'annullamento delle autorizzazioni edilizie 26 aprile 1985, n. 1975 e 29 maggio 1987, n. 18430 ad essa rilasciata dal Sindaco di Sestri Levante per l'installazione di una veranda sull'esistente terrazza del bar ristorante K.T.
Si è costituita in giudizio per resistere la Provincia di Genova.
All'udienza del 9 novembre 1999 la causa è passata in decisione.
DIRITTO
L'appello ripropone sostanzialmente le censure già dedotte nel giudizio dì primo
grado (ed in tale sede disattese) nei confronti del decreto del Presidente della Provincia
di Genova, che ha annullato (alle provincie è conferito dalla legge regionale della
Liguria n. 7 del 1987 il potere d'annullamento d'ufficio ex art. 27, legge n. 1150 del 1942) due
autorizzazioni edilizie rilasciate dal Sindaco di Sestri Levante per l'installazione di
una veranda sulla terrazza antistante il bar-ristorante di cui è titolare la società
appellante.
Tali autorizzazioni edilizie (la seconda delle quali assentita in sanatoria di varianti
apportate in sede esecutiva) erano state rilasciate con clausola di precarietà, previa
sottoscrizione da parte della titolare di un atto unilaterale d'obbligo, recante l'impegno
a demolire il manufatto in qualsiasi momento a giudizio insindacabile dell'amministrazione
comunale senza pretendere alcun indennizzo.
L'illegittimità posta alla base del l'annullamento è costituita dal fatto che
l'intervento assentito, pur ammissibile per tipologia e destinazione d'uso, non avrebbe
rispettato l'indice di zona, previsto dall'art. 14 delle norme dì attuazione del P.R.G.
Nel ricorso di primo grado la società interessata aveva sostenuta che la predetta disposizione non sarebbe stata applicabile nella fattispecie attesa la natura precaria delle autorizzazioni edilizie.
Il T.A.R. ha escluso che possa configurarsi un tipo di provvedimento abilitativo che
consenta di realizzare opere in contrasto con la normativa urbanistica, rilevando che o
viene in considerazione un'opera avente natura precaria, ed allora non si rende
conseguentemente necessario alcun titolo abilitativo, o viene in rilievo un'opera avente
carattere di stabilità, ed allora necessita in ogni caso il rispetto della normativa
urbanistica.
La Sezione condivide tale tesi, giacche il criterio interpretativo della normativa
urbanistica non può essere che quello inteso ad assicurare la tutela dell'interesse ad un
legittimo assetto urbanistico del territorio.
Pertanto, il Comune non può, mediante l'inserimento nel titolo abilitativo di clausole
o condizioni, permettere la realizzazione, in contrasto con la programmazione di settore,
di opere che siano in grado di alterare in modo permanente l'assetto urbanistico.
Nell'atto di appello non si contesta il carattere stabile dell'opera, ma si lamenta che il
TAR non abbia considerato che nella fattispecie si trattava di un atto tipico
(autorizzazione edilizia) contraddistinto dall'apposizione di particolari clausole, come
dovrebbe ritenersi possibile e consentito alla stregua della giurisprudenza amministrativa
in materia.
Senonché, la questione non è se in via generale sia consentito apporre ad un
provvedimento amministrativo clausole o condizioni, bensì se la presenza di tali clausole
e condizioni possa legittimare la realizzazione, in contrasto con le previsioni di piano
regolatore generali, di opere edilizie che, in quanto destinate (come nella fattispecie) a
soddisfare esigenze non temporanee dall'esecutore delle opere, rivestono di fatto
carattere largamente duraturo.
A quest'ultimo quesito deve darsi, appunto, risposta negativa.
Nell'appello ci si duole poi del fatto che il T.A.R. abbia disatteso le censure con cui
nel ricorso di primo grado era stato contestato che potesse essere poste a base del
provvedimento impugnato la mancata presentazione di controdeduzioni alla contestazione di
addebiti effettuate dalla Provincia, nonché l'avvenuta ricezione società interessata che
parte del Comune di un'istanza di sanatoria presentata dalla a seguito della contestazione
stessa.
In verità nel parere del comitato urbanistico provinciale che ha preceduto il
provvedimento di annullamento si fa riferimento, allorquando si tratta dell'interesse
pubblico all'annullamento stesso, anche a tali circostanze.
Deve, tuttavia, rilevarsi che nel parere medesimo viene sottolineato, richiamandosi la
precedente contestazione, che gli elementi che facevano emergere un concreto ed attuale
interesse pubblico prevalente nei confronti di quello privato all'avvio del procedimento
di annullamento erano i seguenti:
1) la consistenza, in termini quantitativi, della violazione urbanistico-edilizia
perpetrata, derivante sia dal notevole divario tra la volumetria consentita dalla
superficie a disposizione e quella effettivamente realizzata (100 volte maggiore), che
dalla stessa non indifferente cubatura dell'opera (circa 708 mc);
2) la circostanza che. al momento del rilascio del titolo in sanatoria, l'opera edilizia
risultava già completata e, di conseguenza, non poteva riconoscersi in capo al privato
alcuna situazione di buona fede meritevole di tutela;
3) il fatto che il Sindaco non aveva adeguatamente controdedotto rispetto al parere
negativo a suo tempo espresso dalla Commissione edilizia in ordine al rilascio del titolo
abilitativo.
Nel decreto di annullamento si recepisce espressamente il parere del Comitato
urbanistico provinciale e si afferma che l'interesse attuale, concreto e specifico alla
rimozione dei provvedimenti, diverso dà quello del mero ripristino della legalità
violata, era ravvisabile sull'esigenza di superare i condizionamenti derivanti
dall'intervento contestato alla soluzione dei problemi di assetto e di equilibrio
urbanistico.
Appare, dunque, evidente che la motivazione sull'interesse pubblico all'annullamento è
incentrata sulla considerazione dell'entità dell'abuso, tale da compromettere l'assetto e
l'equilibrio urbanistico.
Di conseguenza è del tutto condivisibile l'assunto del T.A.R. secondo cui le ulteriori
contestate considerazioni contenute nel parere hanno il valore di mero arricchimento di
tale rilievo principale, il quale di per sé è idoneo a sostenere la motivazione sul
punto, indipendentemente dall'eventuale incongruità delle ulteriori argomentazioni
addotte nel parere.
Quanto sopra esposto vale anche per confutare le censure con cui si contesta la
sussistenza di un interesse pubblico all'annullamento, giacché si è visto che un sfatto
interesse è stato ravvisato nella necessità di garantire che l'assetto e l'equilibrio
dell'azione non sia compromesso da un abuso di notevole entità. Né può assumere
rilevanza - come dedotto nel giudizio dì primo grado - il lungo tempo trascorso dalla
commissione dell'abuso o l'interesse al mantenimento di un pubblico esercizio di richiamo
turistico, in quanto il trascorrere del tempo non può di per sé far venir meno la
rilevanza dell'abuso e la soddisfazione dell'interesse allo sviluppo del turismo non può
prescindere dal rispetto della normativa urbanistica.
Non può sostenersi che sia un sintomo di minor pregiudizio per l'interesse pubblico la
circostanza che fosse possibile la regolarizzazione dell'intervento mediante ulteriore
asservimento di terreno per raggiungere i prescritti indici di fabbricabilità.
Infatti, fino a quando non fosse intervenuta la regolarizzazione della posizione, non si
sarebbe potuto ritenere venuto meno lo squilibrio all'assetto urbanistico della zona.
Con riguardo alla possibilità di regolarizzazione va inoltre precisato che,
contrariamente a quanto sostenuto dall'appellante, tale circostanza non può ritenersi
ostativa dell'esercizio del potere di annullamento della Provincia.
Ed invero, la Provincia non ha competenza in materia di rilascio di autorizzazioni o
concessioni edilizie, sicché un eventuale intervento in sanatoria non poteva che essere
di competenza del Comune.
Deve anzi osservarsi che l'annullamento della Provincia può proprio costituire il
presupposto e lo stimolo per un intervento del genere da parte del Comune.
Né può essere condiviso l'assunto dell'appellante secondo cui dovrebbe in ogni caso
applicarsi, dopo l'annullamento, la sanzione e solo in un secondo momento potrebbe essere
rilasciato il titolo edilizio in sanatoria.
Va, al contrario sottolineato che, qualora dopo l'annullamento venga proposta un'istanza
di sanatoria, il Comune non può irrogare alcuna sanzione prima di aver dato riscontro
all'istanza stessa. Per i suesposti motivi l'appello deve essere respinto. Le spese del
giudizio di secondo grado seguono le soccombenze e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione V, rigetta l'appello.
Condanna l'appellante a pagare alla Provincia di Genova le spese del giudizio dì secondo
grado di giudizio, e le liquida in complessive lire 8.000.000 (otto milioni).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 9 novembre 1999, nella sede di Palazzo Spada dalla Sezione Quinta del Consiglio di Stato