EDILIZIA - 004

PIANIFICAZIONE URBANISTICA E PROCEDURA ESPROPRIATIVA

(Avv. Massimiliano Alesio)

INDICE: 

1. Introduzione e profili storici; 
2. I vincoli urbanistici ed i vincoli preordinati all'espropriazione; 
3. Pianificazione urbanistica ed espropriazione nel d.P.R.  327/2001. La problematica della partecipazione.

1. INTRODUZIONE E PROFILI STORICI

I rapporti fra pianificazione urbanistica e procedura espropriativa sono, indubbiamente, risalenti nel tempo ed hanno dato luogo a numerose, problematiche, non solo di natura teorica, ma anche di indole meramente applicativa. Come vedremo, le origini dei rapporti sono lontane e hanno avuto inizio con le prime leggi amministrative fondamentali, approvate all’indomani dell’unità d’Italia. Sia la pianificazione urbanistica  che l’espropriazione per pubblica utilità costituiscono “istituti cardine” dell’ordinamento giuridico, cioè istituti decisivi per l’organizzazione spaziale della comunità e per il conseguimento di precise  finalità di pubblico interesse. Entrambe sono dirette ad incidere in maniera più che rilevante sulla realtà socio-economica dello Stato e si potrebbe, addirittura, affermare che pianificazione urbanistica ed espropriazione costituiscono, o meglio hanno costituito, uno dei principali strumenti di azione e di intervento nell’ambito delle modalità operative dello Stato sociale. Il discorso relativo allo Stato Sociale non è di secondaria importanza per un corretto inquadramento della problematica in esame; anzi, è opportuno ricordare le principali opzioni differenziali sussistenti fra i modelli di Stato di diritto e Stato Sociale.

Sui concetti di Stato di diritto e Stato sociale, nell'ultimo trentennio si è a lungo intrattenuta la dottrina giuridica e politica, la quale soleva, e suole, distinguerli e presentarli nel seguente modo. Lo Stato di diritto ha come postulato fondamentale la sua autonomia dalla società civile, e si caratterizza per il suo limitato intervento nella società, intervento diretto solo a garantire una serie di libertà e di diritti, espressamente riconosciuti. Lo Stato sociale, invece, postula il raccordo funzionale fra le istituzioni pubbliche e la società, e si caratterizza per il fatto di essere soggetto attivo della comunità, interessato ad incidere pure pesantemente sull'ordine sociale per promuovere lo sviluppo socio-economico e comporre i conflitti esistenti. Orbene, stante la forte diversità fra questi due modelli di Stato, la dottrina giuridica e politica ha cercato di individuare uno strumento capace di armonizzarli, in maniera tale da evitare le tipiche degenerazioni dei medesimi: l'individualismo ed il collettivismo. Il concetto-strumento, sul quale maggiormente si è concentrato l'interesse, è stato quello della partecipazione [1]. Parte della dottrina [2] ha, infatti, iniziato a parlare di "Stato sociale di diritto", un modello di Stato che trae origine dall'armonizzazione dei due modelli precedenti e che si fonda sulla cosiddetta "democrazia partecipativa", nella quale la partecipazione esplica il suo massimo potenziale: lo Stato interviene nella società per il perseguimento dei suoi fini di benessere sociale (art. 3 comma 2 Cost.), e la sua azione viene ad un tempo rafforzata e controllata dalla partecipazione dei cittadini alle strutture pubbliche.

Con il d.P.R. n. 327 del 08.06.2001 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), il Legislatore nazionale ha finalmente delineato una disciplina organica ed omogenea dell’espropriazione, non trascurando i rapporti con gli strumenti di pianificazione urbanistica.

I primi contatti fra la disciplina urbanistica e l’istituto dell’espropriazione, come già anticipato prima, sono rinvenibili nei primordi della legislazione nazionale del nuovo Stato unitario. Già nella legge 2359/1865 (Disciplina delle espropriazioni forzate per causa di pubblica utilità), i contatti sono ben evidenti, e trovano il loro riconoscimento negli articoli 86 e 92.

L'art. 86, in relazione ai Comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti, stabiliva che i medesimi possono redigere un piano regolatore per causa di pubblico vantaggio determinato da attuale bisogno di provvedere alla salubrità ed alle necessarie comunicazioni…..nel quale siano tracciate le linee da osservarsi nella ricostruzione di quella parte dell'abitato in cui sia da rimediare alla viziosa disposizione di edifici, per raggiungere l'intento.

L'art. 92 stabiliva, inoltre, che l'approvazione del Piano Regolatore equivale a dichiarazione di pubblica utilità, e potrà dar luogo alle espropriazioni delle proprietà nel medesimo comprese.

Dunque, l'approvazione del Piano Regolatore equivaleva a dichiarazione di pubblica utilità, pur se tale effetto veniva limitato a talune categorie di opere e veniva diretto verso precise finalità. Infatti, l'effetto dichiarativo era previsto esclusivamente per le opere igienico-sanitarie (provvedere alla salubrità) e stradali (alle necessarie comunicazioni), da prevedersi espressamente. Inoltre, l'effetto dichiarativo veniva correlato alla finalità di realizzare una più ordinata ricostruzione di edifici fatiscenti, o carenti di impianti igienico-sanitari, oppure ancora siti in posizione contrastante con le realizzande strade (rimediare alla viziosa disposizione degli edifici). Conseguentemente, un Piano Regolatore dell'epoca non poteva prevedere la realizzazione di opere pubbliche diverse da quelle di carattere fognario o stradale; ciò in virtù del principio di legalità dell'azione amministrativa e di tipicità degli atti amministrativi [3].

Nel 1942, con la fondamentale Legge 1150/1942 (Legge urbanistica), la pianificazione urbanistica e le espropriazioni subirono una rilevante scissione, nel senso che venne interrotta quella profonda linea di contiguità, introdotta dalla normativa ora esaminata. Infatti, l'approvazione del Piano Regolare Generale non equivale più a dichiarazione di pubblica utilità (art. 7). Solo con l'approvazione del Piano particolareggiato, il quale costituisce lo strumento urbanistico di attuazione per eccellenza delle previsioni del Piano Regolatore, si produce l'effetto dichiarativo (Art. 16) [4]. Invero, il significato di tali disposizioni, generanti la citata scissione, deve essere chiarito.

Occorre osservare, infatti, che il Piano Regolatore può, ed anzi dovrebbe, prevedere la realizzazione di una data opera pubblica sul territorio comunale, a cui possono ricollegarsi eventuali necessità espropriative. Tale punto è fuori discussione. Bensì, è doveroso evidenziare che, con la Legge urbanistica del ’42, il rapporto fra Piano Regolatore Generale e Piano particolareggiato va interpretato ed inteso alla stregua di quello sussistente fra un progetto preliminare ed un progetto esecutivo, per cui il secondo diviene lo strumento principe di realizzazione del primo.

2. I VINCOLI URBANISTICI ED I VINCOLI PREORDINATI ALL'ESPROPRIAZIONE

Prima di procedere ad una congrua distinzione dei vincoli urbanistici, occorre premettere che i medesimi, nell'ambito della procedura espropriativa, esplicano una duplice valenza. In primo luogo, identificano i beni che il Piano Regolatore presceglie per conseguire i propri scopi. In secondo luogo, influenzano, con maggiore o minore rilevanza, l'ammontare ed, in particolare, i criteri di determinazione dell'indennità di espropriazione.

Esistono diversi tipi di vincoli urbanistici. Vi sono, innanzitutto, i vincoli preordinati all'espropriazione, cioè quelli aventi valore prodromico rispetto alla procedura espropriativa. Abbiamo, poi, i vincoli comportanti la inedificabilità assoluta, cioè quelli che limitano in maniera integrale la potestà edificatoria dei soggetti.  Questi due primi vincoli esplicano, invero, una funzione essenzialmente espropriativa, in quanto sottraggono al privato la proprietà di dati beni, per trasferirli all’Autorità espropriante, al fine di realizzare un’opera pubblica o di consentire l’esercizio di un pubblico servizio.

Funzione diversa esplicano, invece, i vincoli di zonizzazione o di destinazione, denominati pure vincoli di inedificabilità generale. Tali vincoli sono espressione del  cosidetto "potere conformativo" della Pubblica Amministrazione, il quale consiste nel potere di connotare giuridicamente il diritto di proprietà in modo da operare il contemperamento tra le esigenze proprietarie e quelle di pubblico interesse generale. Attraverso l'esercizio di tale potere, la Pubblica Amministrazione opera una qualificazione del diritto di proprietà, una connotazione, diretta ad adeguare il diritto individuale all'interesse della collettività.  Il potere conformativo, che trova il suo fondamento giuridico nella funzione sociale del diritto di proprietà, di cui all'art. 42 Cost., può essere facilmente confuso con il potere espropriativo [5]. La Corte di Cassazione, a partire dalla nota sentenza 5.175/1978 [6], ha ben individuato i profili distintivi: si è in presenza di potere conformativo, se manca l'effetto acquisitivo della proprietà, con sussistenza, invece, dell'incidenza su categorie omogenee di beni; si è in presenza di potere espropriativo, se sussiste l'effetto acquisitivo, oltre l'effetto privativo [7], con incidenza su singoli beni e con imposizione di sacrifici individuali a vantaggio della collettività. La distinzione non ha soltanto rilievo teorico, perché, come vedremo, mentre nell'esercizio del potere conformativo la P.A. non conosce l'obbligo dell'indennizzo, questo, invece, è previsto ed imposto quando la medesima utilizza il potere espropriativo.

I vincoli di destinazione vengono prefissati dagli strumenti urbanistici nell'ambito della cosiddetta zonizzazione del territorio e sono relativi al particolare regime giuridico delineato dal Piano Regolatore Generale in riferimento ad una data zona. La giurisprudenza ha chiarito più volte la loro natura ed il loro essere manifestazione del potere di conformazione:

- I vincoli di destinazione, fissati dagli strumenti urbanistici nell'ambito della cosiddetta zonizzazione del territorio, a differenza dei vincoli espropriativi o di inedificabilità assoluta in previsione della realizzazione di opere pubbliche, afferiscono, in via generale, al regime giuridico di tutti i beni compresi in una determinata zona e non comportano obbligo di indennizzo (Cassazione Civile, sez. I, n° 967 del 30/01/1992).

- I vincoli di inedificabilità generale concretano un modo d'essere della proprietà immobiliare e, in quanto investono una pluralità indifferenziata di proprietà (in funzione delle caratteristiche del bene o del rapporto, di norma spaziale, con un'opera o un bene pubblico) vengono considerati conformativi e non suscettibili di indennizzo (Cassazione Civile, sez. I, n. 1220 del 04/02/2000) [8].

Vi sono, inoltre, i cosiddetti limiti di edificabilità, che rientrano nelle ipotesi di qualificazione delle zone del territorio urbano o delle tipologie edilizie realizzabili nelle singole zone. Nella pratica, tali limiti generano imposizioni concrete in capo ai proprietari, quali l'obbligo di costruire, in alcune zone, villette con esigua volumetria e non grattacieli, in altre zone solo case coloniche, con ancor più ridotta volumetria e rapporto di copertura (superficie coperta - superficie disponibile) e così via. I limiti di edificabilità, pur se comprimono, talora in maniera ampia, il diritto dominicale, non possono considerarsi "espropriativi".

Infine, abbiamo altre tipologie di vincoli, che prescindono dal Piano Regolatore, ma vengono recepite da quest'ultimo, in quanto previsti da leggi dello Stato. Tali vincoli consistono in una serie di limitazioni alla libera attività edilizia previste in talune località, prossime ad opere o a luoghi soggetti ad uso pubblico, per finalità di tutela di preminenti interessi (sicurezza, igiene, migliore utilizzazione di beni demaniali, etc.) Si tratta di una tipologia variegata, che comprende diversi tipi di vincoli, quali:

- Vincoli paesaggistici: previsti dalla legge 1497/1939, ora d.lgs. 490/1999 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali).
- Vincoli storico-artistico-monumentali ed archeologici: previsti dalla legge 1089/1939, ora d.lgs.. 490/1999 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali).
- Vincoli relativi alle distanze di rispetto stradale: previsti dal nuovo Codice della strada, d.lgs. 285/1992 e dal suo Regolamento di esecuzione, d.P.R. 495/1992.
- Vincoli relativi alle distanze di rispetto cimiteriale: previsti dagli articoli 338 Testo Unico 1265/1934 (Testo Unico leggi sanitarie) e 57 d.P.R. 285/1990 (Regolamento di polizia mortuaria).
- Vincoli relativi alle distanze di rispetto ferroviario: previsti dal d.P.R. 753/1980 e dal d.m. 03/08/1981.
- Vincoli relativi alle distanze di rispetto del demanio marittimo: previsti dall'articolo 55 del Codice della Navigazione (R.D. 327/1942).
- Vincoli relativi alle distanze di rispetto degli aeroporti: previsti dagli articoli 714-717 bis del Codice della Navigazione (R.D. 327/1942).
- Vincoli relativi alle distanze di rispetto delle aree doganali: previsti dall'articolo 4 del d.P.R. 18/1971.
- Vincoli relativi alle distanze di rispetto delle acque pubbliche: previsti dal Testo Unico sulle opere idrauliche 523/1904.

Il problema della precisa individuazione dei vincoli urbanistici e della loro indennizzabilità costituisce questione da tempo affrontata dalla dottrina e dalla giurisprudenza.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n° 55 del 29/05/1968, stabilì che sono indennizzabili soltanto i vincoli urbanistici aventi un contenuto essenzialmente espropriativo. Precisamente, la Corte dichiarò l'illegittimità, in riferimento agli artt. 3 e 42 della Costituzione, degli artt. 7 e 40 della legge 1150/1942, nella parte in cui non prevedevano, per le limitazioni con contenuto sostanzialmente espropriativo, imposte dal Piano Regolatore Generale a carico delle proprietà private ed operanti immediatamente ed a tempo indeterminato, un indennizzo a favore dei soggetti che hanno un diritto reale sui beni da esse gravati. In altri termini, il diritto all'indennizzo venne riconosciuto in riferimento ai vincoli direttamente preordinati all'espropriazione ed ai vincoli di inedificabilità assoluta, i quali, pur non comportando il trasferimento coattivo del bene, incidono sul godimento di esso tanto profondamente da rendere il bene stesso inutilizzabile in rapporto alla sua naturale destinazione, oppure determinando il venir meno del suo valore di scambio, o una sua notevole decurtazione. Viceversa, il Giudice delle Leggi escludeva l'indennizzo per tutti gli altri vincoli, ed anche per i vincoli di zonizzazione, espressione del potere conformativo della P. A.

Con la legge 1187/1968, all'art. 2, venne sancita la durata quinquennale dei vincoli preordinati all'espropriazione e di quelli comportanti l'inedificabilità assoluta. Precisamente, venne previsto che i vincoli urbanistici avrebbero perso efficacia, qualora non fossero stati approvati i piani attuativi entro 5 anni dall'approvazione del P.R.G. Con la legge 10/1977, inizialmente, si ritenne che lo jus aedificandi non inerisse più al diritto di proprietà, in quanto la vecchia licenza edilizia era stata sostituita con la concessione edilizia. Conseguentemente, tale orientamento sosteneva che i vincoli di inedificabilità, previsti dagli strumenti urbanistici, non potevano più dispiegare efficacia ablatoria nei riguardi della proprietà. Tale orientamento venne sconfessato dalla sentenza della Corte Costituzione n° 5 del 30/01/1980, la quale precisò che lo jus aedificandi continua ad inerire alla proprietà. Inoltre, venne rilevato che la legge 10/1977 non si occupa di vincoli urbanistici, per cui la disciplina dei medesimi va unicamente ricercata nella legge 1187/1968 [9]. La Corte di Cassazione, SS.UU., con la sentenza n° 3987 del 10/06/1983, delineò i seguenti importanti principi: - I vincoli hanno durata quinquennale e non danno diritto ad alcun indennizzo; - Decorsi cinque anni, senza l'intervenuta approvazione di un piano attuativo, si verifica la decadenza dei vincoli. Il Consiglio di Stato, in Adunanza Plenaria, con la sentenza n° 7 del 02/04/1984, ha confermato gli orientamenti della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, precisando che, una volta scaduto il vincolo, l'area diviene edificabile nei limiti previsti dall'art. 4 legge 10/1977 [10]. Il Consiglio di Stato ha, inoltre, stabilito che, in caso di scadenza di vincolo, vige la seguente disciplina: - Non può rivivere la precedente destinazione; - Non può applicarsi la disciplina delle aree limitrofe omogenee; - Non può valere l'equiparazione alle zone bianche [11]; - Trovano applicazione i limiti di volume e di altezza previsti dall'art. 17, comma 6 della legge 765/1967 (rispettivamente 3 mc/mq e mt 25).

La giurisprudenza amministrativa successiva ha confermato le indicazioni dell’Adunanza Plenaria:

- Il venir meno dell’efficacia del vincolo pubblicistico, impresso dallo strumento urbanistico, non restituisce al terreno vincolato l’originaria destinazione privata, essendo giurisprudenza pacifica che il giudizio negativo espresso dall’Amministrazione sull’originaria destinazione privatistica sopravvive alla caducazione  della successiva destinazione pubblicistica (Cons. Di Stato, sez. V, n. 68 del 17/01/1992).

- A seguito della scadenza di vincoli di inedificabilità, l’area resta assoggettata alla disciplina prevista dall’art. 4 ultimo comma legge 10/1977 o alla Legislazione Regionale, ove esistente, per i Comuni sprovvisti di strumento urbanistico, e non alla disciplina anteriore all’imposizione del vincolo o ricavabile dalle destinazioni proprie delle aree limitrofe (Cons. di Stato, sez. V, n. 924 del 03/10/1992).

La giurisprudenza, ha poi, affrontato il delicato problema della reiterabilità dei vincoli. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 10 del 30/04/1984, ha stabilito che la Pubblica Amministrazione può riproporre il vincolo decaduto, anche attraverso il ricorso alla procedura abbreviata di variante, di cui all’art. 1 c,. 5 legge 1/1978. Tuttavia, l’esercizio del potere di reiterazione viene subordinato a due precise condizioni: - obbligo di fornire una adeguata motivazione circa la sussistenza del pubblico interesse alla reiterazione del vincolo decaduto; - obbligo di procedere ad una approfondita valutazione delle ipotesi alternative per la composizione degli interessi configgenti. La giurisprudenza si è sempre espressa favorevolmente  circa la reiterabilità dei vincoli:

- Il Comune ha il potere di reiterare vincoli espropriativi di piano regolatore scaduti, purché la relativa determinazione sia sorretta da una specifica motivazione, che richiede una puntuale valutazione sulla persistenza della specifica esigenza pubblica dell’area, comparata con l’interesse del privato già gravato da un vincolo rimasto inattuato (Cons. di Stato, sez. V, n. 593 del 21/05/1999)[ 12].

Relativamente al problema dell’indennizzabilità della reiterazione, le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 11257 del 15/10/1992, hanno negato che il Giudice Ordinario sia competente a conoscere della richiesta di indennizzo per il pregiudizio subito dalla reiterazione del vincolo di inedificabilità, sul presupposto che l’attività reiterativa, posta in essere dalla P.A., non può considerarsi espletata in carenza assoluta di potere, per cui da essa non possono derivare diritti soggettivi di contenuto risarcitorio.

Con la storica sentenza della Corte Costituzionale n. 179 del 20/05/1999, è stato, finalmente sancito il principio che la reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio e di quelli di inedificabilità assoluta,  cioè i vincoli a carattere espropriativo, deve essere non solo sorretta da una adeguata motivazione, ma dà diritto ad un indennizzo: E’  incostituzionale il comminato disposto degli artt. 7, ,n. 2, 3 e 4 e 40 legge n. 1150/1942 e art. 2, c. 1 legge 1187/1968 nella parte in cui consente alla amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione di indennizzo.

La Corte costituzionale ha precisato i requisiti che deve possedere il vincolo, affinché possa esser considerato sottoponibile ad indennizzo:

- Il vincolo deve essere preordinato all’espropriazione o avere carattere espropriativo, nel senso di comportare come effetto pratico uno svuotamento di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà stessa, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati comportanti indedificabilità assoluta.

- Il vincolo non deve superare la durata che il legislatore abbia fissato come limite, non irragionevole e non arbitrario, affinché il vincolo stesso risulti sopportabile da parte del singolo soggetto titolare del bene.

- Il vincolo non deve superare , sotto il profilo quantitativo, la normale tollerabilità secondo una concezione della proprietà regolata dalla legge per i modi di godimento ed i limiti preordinati alla sua funzione sociale.

Quindi, è stata pronunciata la non legittimità costituzionale non dell’intero complesso normativo, che continua a consentire la reiterazione dei vincoli, ma solo della mancata previsione di indennizzo in tutti i casi di permanenza del vincolo preordinato all’espropriazione o comportante l’assoluta inedificabilità, oltre i limiti fissati dal Legislatore, ove non risulti l’inizio della procedura espropriativa. La Corte Costituzionale non giunge a fissare i  criteri per la concreta liquidazione del quantum dell’indennizzo, ma pone solo  le premesse per la sua definizione. Infatti, afferma che l’indennizzo per il protrarsi del vincolo è un ristoro non necessariamente integrale od equivalente al sacrificio, per una serie di pregiudizi che si possono verificare a danno del titolare del bene immobile colpito. L’indennizzo deve essere commisurato al mancato uso normale del bene, ovvero alla diminuzione di prezzo di mercato, rispetto alla situazione giuridica antecedente alla pianificazione che ha imposto il vincolo.

3. PIANIFICAZIONE URBANISTICA ED ESPROPRIAZIONE NEL d.P.R. 327/2000. LA PROBLEMATICA DELLA PARTECIPAZIONE.

L’art. 9 del T.U. disciplina i vincoli preordinati all’esproprio, confermando in gran parte la normativa pregressa e recependo le più innovative statuizioni della giurisprudenza. Il vincolo preordinato all’espropriazione deve essere imposto in sede di Piano Regolatore Generale, e diviene efficace al  momento della sua approvazione. In caso di variante al PRG, prevedente la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità, il vincolo diviene efficace all’atto dell’approvazione della variante medesima.

Il vincolo preordinato all’espropriazione ha una durata quinquennale. Viene, così, confermata la precedente statuizione normativa. Entro il termine quinquennale, deve essere emanato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera [13]. Se la pubblica utilità non viene tempestivamente dichiarata, si verifica la decadenza del vincolo con applicazione della disciplina prevista dall’art. 9 del Testo Unico [14] in materia edilizia [15]. E’ consentita la reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio, dopo la sua intervenuta decadenza, solo con la previa evidenziazione di una congrua motivazione, che palesi le ragioni di pubblico interesse. La reiterazione deve essere disposta con la rinnovazione dei procedimenti di approvazione del P.R.G., o di una sua variante, sempre tenendo conto dell’obbligatorio soddisfacimento degli standard.

L’art. 9, c. V, introduce una rilevante novità, diretta a semplificare, forse troppo, la procedura, in caso di intervenuta volontà di modificare l’opera pubblica originariamente.  Infatti, il Consiglio Comunale può, previa congrua motivazione, stabilire che, sull’area interessata dal vincolo preordinato all’esproprio, siano realizzate opere pubbliche o di pubblica utilità diverse da quelle previste in sede di P.R.G. . La procedura prevede una prima deliberazione consiliare di adozione della modifica. Se la Regione, o l’Ente da questa delegato all’approvazione del Piano Urbanistico Regionale, non manifesta il proprio dissenso entro 90 giorni, la modifica di opera pubblica si intende approvata. Siamo, quindi, in presenza di una forma di silenzio-assenso, cui fa seguito una seconda deliberazione consiliare, conclusiva, di approvazione definitiva della modifica.

La norma, invero, non convince completamente in quanto introduce un elemento di incertezza nel corso della durata del vincolo preordinato all'esproprio. Infatti, se il vincolo era stato previsto ed apposto per realizzare una data opera pubblica (ad es. una scuola), trova piena giustificazione il permanere del medesimo vincolo per dar luogo ad una qualsiasi e diversa altra opera pubblica (ad es. una piscina comunale)? In altri termini, il vincolo connesso alla realizzazione della Scuola è giustificabile ancora se la scuola non viene più realizzata, ed al suo posto viene edificata una piscina? E' indubbio che la "novità" fa sorgere due ordini di problemi, di non lieve entità. In primo luogo, sussiste un problema di tutela dei diritti proprietari. Il privato-proprietario, attraverso pure i modelli di partecipazione ora introdotti, ha manifestato il suo assenso, o il suo non-dissenso, nei riguardi di una data opera pubblica; è fuori discussione che tale manifestazione di volontà permanga anche se l'opera viene mutata? In secondo luogo, emerge un problema connesso alla scelta delle aree da espropriare. Infatti, se il privato-proprietario è stato coinvolto, grazie agli strumenti partecipativi, nella scelta dell'area, ed ha pure "assentito" una data localizzazione di quella determinata opera pubblica, mutando quest'ultima, la volontà del privato, precedentemente manifestata ed analizzata, andrebbe sottoposta ad una riconferma. Per tale ragione la procedura delineata dalla norma va rettamente interpretata nel seguente modo:

- Prima deliberazione consiliare di adozione della modifica, con intenso onere motivazionale, diretto ad illustrare le forti ragioni di interesse pubblico che sottendono la scelta di modifica.

- Eventuale dissenso della Regione, da comunicare entro 90 giorni, ed eventuale presentazione di osservazioni-opposizioni, da parte degli interessati e del privato-proprietario, cui andrebbe necessariamente notificata la prima deliberazione.

- Seconda deliberazione di controdeduzione ed approvazione definitiva

Il vincolo preordinato all’esproprio può essere previsto anche in altri atti, oltre il P.R.G. e le sue eventuali varianti. Infatti l’art. 10 del T.U. prevede che, laddove la realizzazione di un’opera pubblica non sia prevista in sede di P.R.G., il vincolo può essere disposto mediante una conferenza di servizi, un accordo di programma, un’intesa, ovvero un altro atto, anche di natura territoriale, che in base alla legislazione vigente comporti la variante al Piano Urbanistico e l’apposizione su un bene del vincolo preordinato all’esproprio. Il vincolo deve essere previsto dall’Amministrazione competente all’approvazione del Progetto, la quale pone in essere atti di iniziativa diretti in tal senso.

La Conferenza di Servizi, è una forma di cooperazione tra Amministrazioni Pubbliche, introdotta dalla Legge 241/1990, al fine di snellire l’azione amministrativa, evitando che, nei procedimenti particolarmente complessi, le Pubbliche Amministrazioni coinvolte debbano pronunciarsi in luoghi, modi e in tempi diversi. La Conferenza di Servizi sostituisce, a singoli atti individuali delle rispettive PP.AA., una valutazione contestuale, assunta in sede collegiale [16].

Gli accordi di programma sono intese, stipulate fra pubbliche amministrazioni, con le quali, vengono concordate le modalità di programmazione e di esecuzione di interventi pubblici, coordinando le rispettive azioni. Gli accordi di programma vengono considerati giustamente come uno strumento duttile di azione amministrativa, preordinato, senza rigidi carattere di specificità, alla rapida conclusione di molteplici procedimenti tutte le volte in cui il loro ordinario svolgimento richiederebbe l’espletamento di più subprocedimenti, indispensabili per la ponderazione di interessi pubblici concorrenti (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 182 del 07/02/1996) [17].

Le altre intese, di cui parla l’art. 10, sono rappresentate dal Patto Territoriale e dall’Accordo di Programma Quadro. Il primo costituisce un programma di interventi integrati nei settori dell’industria, dei servizi e dell’apparato infrastrutturale. L’accordo di programma quadro è un accordo stipulato fra Enti Locali ed altri soggetti, sia pubblici che privati, i quali, in attuazione di un’intesa istituzionale di programma, definiscono il programma di interesse comune o funzionalmente collegato.

L'articolo 11 del Testo Unico disciplina la partecipazione degli interessati all'intero procedimento espropriativo. La dottrina[18] e la giurisprudenza si sono occupate diffusamente di tale problematica, evidenziando insufficienze e carenze della vigente normativa in materia. E stato più volte palesato che la disciplina di settore, in particolare gli articoli 10 ed 11 della legge 865/1971, non consentono una reale partecipazione, perché il coinvolgimento degli interessati avviene in un momento successivo rispetto alla dichiarazione di pubblica utilità, laddove la procedura espropriativa ha già avuto inizio, ed ove la scelta dei beni da espropriare è già stata sostanzialmente compiuta. Di fronte a tali incongruenze, la giurisprudenza degli ultimi anni è più volte intervenuta, consacrando principi di "reale partecipazione", che di fatto hanno integrato le previsioni normative esistenti. Prima di esaminare tali questioni, è più che opportuno inquadrare la problematica della partecipazione nei suoi lineamenti generali.

La problematica della partecipazione, strettamente collegata a quella del procedimento, ha cominciato a divenire frequente oggetto di discussione, da parte della cultura giuspubblicistica, verso la fine degli anni sessanta. In quegli anni, infatti, prendeva piede l'esigenza di introdurre, nell'ambito degli istituti di decisione amministrativa, una serie di interessi sforniti di tutela ed estranei ai processi decisionali; la partecipazione era all'ora vista come lo strumento più idoneo per perseguire questo obiettivo. Successivamente, il dibattito ha evidenziato altre esigenze ed altre funzioni connesse alla partecipazione: a) partecipazione come istituto diretto a perseguire una gestione "consentita", o meglio "concordata" del potere; b) partecipazione come istituto in grado di garantire al privato il diritto di essere informato circa eventuali provvedimenti incidenti sulla sua sfera giuridica (partecipazione contraddittorio o partecipazione garantista); c) partecipazione come istituto in grado di consentire un'analisi più approfondita e trasparente degli interessi coinvolti dall'azione amministrativa; d) partecipazione come concetto-valvola sancito dalla Costituzione (art. 3 comma 2), per adeguare l'ordinamento ai processi evolutivi della vita politica e sociale; e) partecipazione come strumento idoneo ad armonizzare il principio dello Stato di diritto con quello dello Stato sociale.

I primi tre connotati attribuiti alla partecipazione non necessitano, per la loro sostanziale linearità, di alcun approfondimento, diversamente dagli ultimi due che ora, brevemente, affronteremo.

Nel XX secolo, caratterizzato da cambiamenti continui e rapidi, si è evidenziata, in maniera pressante, l'esigenza di individuare strumenti idonei ad adeguare lo Stato ai bruschi e, talora imprevedibili, mutamenti del contesto socio-economico. La dottrina tedesca ha identificato uno di tali strumenti nella partecipazione, attribuendogli il valore di "ventilbegriff" [19], concetto-valvola, capace di creare una continua osmosi fra Stato e società, e dunque, idoneo a ricomporre l'unità del modello giuspolitico. Tale unità si attua attraverso due strade: una prima ascendente, che collega la società allo Stato, una seconda discendente, che prevede un'azione dello Stato nella società. La partecipazione si inserisce in questo quadro come forma di collegamento ascendente fra società e Stato.

Prima di affrontare nei dettagli la partecipazione al procedimento espropriativo, è doveroso fare qualche cenno alla partecipazione alla pianificazione urbanistica. In tale sede, occorre distinguere fra la partecipazione in favore degli Enti pubblici coinvolti e la partecipazione in favore dei soggetti privati potenzialmente interessati.

Per quanto concerne la prima tipologia di partecipazione, la Corte Costituzionale, con l'importante sentenza n. 1.010 del 03/11/1988, ha affermato che la garanzia costituzionale del principio autonomistico, ex artt. 5 e 128 Cost., può considerarsi rispettata ogni qual volta il procedimento finalizzato all'approvazione degli strumenti urbanistici sia articolato in modo tale da assicurare una sostanziale partecipazione allo stesso degli enti, il cui assetto territoriale è determinato dagli strumenti in questione. Inoltre, la Corte rileva che l'individuazione dei modi nei quali tale coinvolgimento può avvenire è rimessa alla discrezionalità del legislatore, sia statale che regionale, la quale può essere sindacata dalla medesima Consulta sotto il profilo della ragionevolezza, cioè sotto il profilo dell'eccesso di potere legislativo [20].

Per quanto concerne la partecipazione dei soggetti potenzialmente interessati, occorre, preliminarmente, rilevare che essa può esprimersi sia in funzione di tutela della propria posizione giuridica, cioè attraverso la proposizione di "opposizioni", sia in funzione collaborativa nei riguardi dell'attività della Pubblica Amministrazione, attraverso la formulazione di "osservazioni". A tal proposito, la Corte Costituzionale, con la risalente sentenza n. 13 del 02/03/1962 [21], ha rilevato che quando il legislatore dispone che si apportino limitazioni ai diritti dei cittadini, la regola  che il legislatore normalmente segue è quella di enunciare ipotesi astratte, predisponendo un procedimento amministrativo, attraverso il quale gli organi competenti provvedono ad imporre concretamente tali limiti, dopo aver fatto gli opportuni accertamenti, con la collaborazione, ove occorra, di altri organi pubblici e dopo aver messo i privati interessati in condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell'interesse pubblico. Il procedimento di formazione del Piano regolatore generale, così come previsto dagli articoli 8 e seguenti della legge 1150/1942, si presenta come sostanzialmente rispettoso delle esigenze di partecipazione evidenziate dalla Corte Costituzionale. Il procedimento prevede le seguenti fasi : - elaborazione del PRG; - deliberazione consiliare di esame ed adozione del PRG; - pubblicazione del PRG e deposito della documentazione; - presentazione di opposizioni ed osservazioni; - deliberazione consiliare di esame delle eventuale opposizioni/osservazioni e di approvazione definitiva del PRG; - invio del PRG alla Regione; - approvazione del PRG da parte della Regione, con possibilità di modifiche per casi tassativi; - reinvio del PRG al Comune; - pubblicazione dell'atto di approvazione regionale nel bollettino ufficiale della Regione. E' ben  evidente che la fase più importante, sotto il profilo degli "esiti partecipativi", è costituita dall'esame delle eventuali opposizioni/osservazioni, rispetto alle quali il Comune conosce un obbligo motivazionale non particolarmente intenso. Su tale punto, la giurisprudenza è da tempo unanime : Le osservazioni presentate dai privati al PRG non costituiscono rimedi giuridici, ma un semplice apporto collaborativo dato dai cittadini alla formazione del Piano; pertanto il rigetto di tali osservazioni non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 74 del 21/01/1993).

La partecipazione alla procedura espropriativa, prima dell'introduzione del Testo Unico, era disciplinata dagli articoli 10 ed 11 della legge 865/1971, i quali, sostanzialmente prevedevano tre fasi : - deposito degli atti; - osservazioni dei privati; - valutazione e decisione circa le osservazioni. Tali modalità partecipative sono da tempo oggetto di severa critica, in quanto incapaci di consentire una reale partecipazione, dato che si esplicano in un momento successivo rispetto alla dichiarazione di pubblica utilità, laddove il progetto di realizzazione dell'opera pubblica è già stato approvato.

La giurisprudenza è recentemente ed autorevolmente intervenuta in materia, con due decisive sentenze, che hanno delineato una "nuova disciplina giurisprudenziale" della partecipazione espropriativa. L'importanza della questione esige che entrambe siano riportate in massima:

- Prima dell’approvazione del progetto definitivo che equivale a dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità, si deve svolgere dinanzi all’organo competente il giusto procedimento, secondo la sequenza: deposito atti – osservazioni – decisioni sulle stesse. Il giusto procedimento, attuato nell’ambito della dichiarazione di pubblica utilità, non ha ragion d’essere nell’occupazione d’urgenza. Non tanto perché vi osti il presupposto dell’urgenza (ogni approvazione del progetto equivale ope legis a dichiarazione di urgenza ed indifferibilità) dato che l’urgenza che costituisce impedimento alla comunicazione è un’urgenza qualificata, ma perché il giusto procedimento ha ragion d’essere nell’ambito della dichiarazione di pubblica utilità, che conserva momenti di scelte discrezionali, ma non più nell’ambito dell’occupazione d’urgenza, meramente attuativa dei provvedimenti presupposti. (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza n. 14 del 15/09/1999).

- L’obbligo della Pubblica Amministrazione di dare comunicazione dell’avvio del procedimento amministrativo, ai sensi dell’art. 7 Legge n. 7 Agosto 1990 n. 241, sussiste, in via analogica, anche in caso di dichiarazione di pubblica utilità implicita nell’approvazione del progetto di opere pubbliche (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, Sentenza n. 2 del 24/01/2000).

La sentenza Adunanza plenaria 14/1999 enuncia, dopo aver compiuto un excursus sulla storia legislativa dell’espropriazione, tre fondamentali principi. In primo luogo, viene affermato che il giusto procedimento espropriativo, pur non assurgendo a principio di rango costituzionale, è oramai un principio generale, cui le leggi ordinarie debbono conformarsi in assenza di ragionevoli deroghe, pena la violazione dei principi costituzionali di ragionevolezza e buon andamento dell’azione amministrativa. In secondo luogo, viene evidenziato che la dichiarazione di pubblica utilità non costituisce un sub procedimento del procedimento espropriativo, ma dà luogo ad un autonomo procedimento, all’interno del quale va garantita la partecipazione, attraverso il preminente strumento della comunicazione di avvio. Infine, in netta contrapposizione alle argomentazioni della tesi negativa si afferma che il contraddittorio, la partecipazione procedimentale non può certo dirsi esaurita nel momento della pianificazione urbanistica. Ciò per due ordini di ragioni. Innanzitutto, pur se la destinazione urbanistica dell’area viene prevista in sede di pianificazione, è ben palese che il progetto dell’opera pubblica, nelle sue diverse scansioni di progetto preliminare, definitivo ed esecutivo, conosce momenti di valutazione discrezionale, certo non marginali, sui quali è essenziale la partecipazione dei privati interessati. Inoltre, non bisogna dimenticare che, ai sensi dell’art. 1, comma 5, Legge n. 1/1978, la deliberazione di approvazione del progetto di opera pubblica costituisce adozione di variante agli strumenti urbanistici. Ciò implica che la destinazione urbanistica prevista può subire, come nella prassi subisce, modifiche conseguenziali all’approvazione di progetti in variante. Ordunque, da tali principi, il Consiglio di Stato enuclea un principio primario fondamentale, secondo il quale la partecipazione procedimentale deve essere garantita in ogni caso prima della  dichiarazione di pubblica utilità, anche in caso di dichiarazione implicita, per cui le formalità previste dagli artt. 10 e 11 Legge n. 865/1971, vanno anticipate e vanno effettuate prima dell’approvazione del progetto definitivo. La sentenza successiva non fa altro che confermare tali statuizioni [22].

L’art. 11 del d.P.R. 327/2001 recepisce tali principi e dispone l'effettivo ingresso e consacrazione della legge 241/1990 nella materia espropriativa. La fondamentale legge 241/1990 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) , con i suoi ineludibili principi, primo fra tutti la partecipazione procedimentale, trova la sua piena cittadinanza nell'espropriazione, grazie alle previsioni del Testo Unico.

Vengono previste ben cinque modalità di partecipazione:
- In caso di adozione di una variante al P.R.G., gli interessati devono ricevere comunicazione di avvio del procedimento almeno 20 giorni prima della deliberazione consiliare di esame ed adozione della variante.
- Nel caso in cui il vincolo preordinato all’esproprio sia stato previsto in una conferenza di servizi, accordo di programma, etc., la comunicazione di avvio deve essere inviata almeno 20 giorni prima dell’emanazione dell’atto, sempre se ciò risulti compatibile con le esigenze di celerità del procedimento.
- Nel caso di approvazione di un progetto concernente reti ferroviarie, la comunicazione di avvio va inviata agli interessati, entro 30 giorni, e deve essere, inoltre, disposta pubblicazione su uno o più quotidiani a diffusione nazionale.
- Nel caso in cui il vincolo sia stato previsto in sede di P.R.G., trovano applicazione le modalità partecipative tipiche dell’approvazione del piano, e già indicate in precedenza.
- Qualora il vincolo derivi dall’inserimento dell’opera pubblica nel programma dei lavori, la comunicazione va fornita agli interessati mediante invio dell’avvio del procedimento di approvazione del programma medesimo [23].

Alesio avv. Massimiliano

[1] Come vedremo, anche la partecipazione esplica un ruolo importante, per alcuni versi decisivo, nell’ambito della pianificazione urbanistica e dell’espropriazione per pubblica utilità.

[2] K. E. Forsthoff, Concetto e natura dello Stato sociale di diritto, in Stato di diritto in trasformazione, Milano 1983.

[3] I principi ora indicati, consacrati, per comune e pacifica accettazione della dottrina, dall'art. 97 della Costituzione, sono da farsi rientrare fra i principi generali dell'ordinamento, che la Costituzione medesima ha poi recepito.

[4] Articolo 16, IX comma legge 1150/1942 : L’approvazione dei piani particolareggiati equivale a dichiarazione di pubblica utilità delle opere in essi previste.

[5] Un esempio di possibile difficoltà di corretta distinzione può essere rappresentato dall'imposizione di servitù militari. In tal caso, se la P.A. stabilisce che, nelle vicinanze di una aerostazione militare, non si può costruire al di là di una certa altezza, siamo in presenza di una servitù vera e propria e, quindi, dell'esercizio del potere espropriativo-ablatorio, oppure siamo in presenza del potere conformativo ?

[6] Occorre ricordare che la Corte Costituzionale, investita del problema, con la sentenza 6/1966, rinviò, per la concreta individuazione dei profili discretivi, al "diritto vivente” della Cassazione.

[7] Occorre osservare che l'effetto privativo, cioè la sottrazione di alcune facoltà tipiche del diritto di proprietà, è presente anche nel potere conformativo.

[8] Anche la giurisprudenza amministrativa, è unanime nell'affermare la natura conformativa dei vincoli di zonizzazione: La natura conformativa dei vincoli di zonizzazione non comporta diritto di indennizzo giacché essi, attenendo alla disciplina generale della funzione sociale della proprietà e dell'utilizzazione dei suoli da parte dei proprietari, rientrano nell'area della riserva di legge, di cui all'art. 42, 2° comma Cost., con la conseguenza che, a differenza dei vincoli espropriativi, incidono negativamente sul valore indennizzabile del bene espropriato (TAR Puglia, sez. I, Lecce, n° 254 del 18/04/1997).

[9] Tale assunto è stato confermato dalla successiva sentenza n. 92 del 27/04/1982.

[10] Art. 4, comma ultimo legge 10/1977: La concessione deve osservare i seguenti limiti: a) Fuori dal perimetro dei centri abitati, l'edificazione a scopo residenziale non può superare l'indice di mc 0,03 per mq di area edificabile; b) nell'ambito dei centri abitati, sono consentite soltanto opere di restauro e di risanamento conservativo, di manutenzione ordinaria o straordinaria, di consolidamento statico e di risanamento igienico; c) Le superfici coperte degli edifici o dei complessi produttivi non possono superare un decimo dell'area di proprietà.

[11] Le zone bianche sono quelle non regolamentate dal P.R.G. e sono legittime solo se adeguatamente motivate, in relazione a particolari esigenze.

[12] Viceversa, la giurisprudenza considera non legittime le reiterazioni che non tengano conto degli obblighi prima indicati: La reiterazione di vincoli espropriativi è illegittima in mancanza di accertamenti puntuali e circostanziati, diretti a stabilire in concreto se le aree interessate abbiano mantenuto la loro idoneità a soddisfare le specifiche esigenze pubbliche e non sussistano possibili soluzioni alternative, in quanto una corretta pianificazione urbanistica non può divaricare nel tempo la cosiddetta espropriazione di valore, senza concrete verifiche sulla perdurante necessità pubblica (Cons. di Stato, sez. IV , n. 312 del 20/02/1998). Benvero, anche la giurisprudenza più recente insiste sulla necessità di valutare in maniera approfondita tutte le ipotesi in gioco: L’Amministrazione Comunale, allorché dispone a notevole distanza di tempo dall’intervenuta decadenza la reiezione dei vincoli urbanistici decaduti per effetto del decorso del termine contemplato nell’articolo 2 legge 1187/1968, è tenuta per esigenze di giustizia ad accertare che l’interesse pubblico, se ancora attuale, non possa essere soddisfatto con soluzioni alternative (TAR Puglia, sez. I Lecce, n. 325 del 07/02/2001). In linea con tali consolidati orientamenti, una recentissima sentenza del Consiglio di Stato (Sez. IV, n° 4605 del 03/09/2001) ha affermato che è nescessaria una specifica motivazione per la riapprovazione di un progetto di opera pubblica, idonea a dimostrare la permanenza delle condizioni di attualità e concretezza dell'interesse pubblico : Deve rilevarsi che se è astrattamente ammissibile la riapprovazione di un progetto di opera pubblica, ai fini della dichiarazione della sua pubblica utilità, nonché di indifferibilità e d’urgenza dei lavori necessari alla sua realizzazione, è tuttavia necessario ai fini della sua legittimità che sussistano, alla data di adozione del provvedimento di riapprovazione, le condizioni di l’attualità e concretezza dell’interesse pubblico che si intende conseguire con la realizzazione dell’opera stessa: infatti solo in presenza delle predette condizioni può legittimamente comprimersi il diritto di proprietà, oggetto – tra l’altro – di tutela costituzionale.
Ciò, del resto, oltre ad essere conforme ai principi di legalità, buon andamento e imparzialità, che, ai sensi dell’articolo 97 della Costituzione, devono presiedere allo svolgimento dell’attività della pubblica amministrazione, serve ad evitare che, attraverso la riapprovazione del progetto di un’opera pubblica, possano eludersi i termini, eventualmente scaduti, di cui all’art. 13 della legge 25 giugno 1865 n. 2359.

[13] Ai sensi dell’art. 12, gli atti che comportano la dichiarazione di pubblica utilità, in caso di conformità dell’opera alle previsioni dello strumento urbanistico, sono i seguenti: - approvazione di un progetto definitivo di opera pubblica o di pubblica utilità; - approvazione di un Piano particolareggiato, di un Piano di Lottizzazione di un Piano di Recupero, di un Piano di ricostruzione, di un Piano per Insediamenti Produttivi, di un Piano di Edilizia Economica Popolare; - approvazione di uno strumento urbanistico, anche di settore o attuativo, idoneo a produrre dichiarazione di pubblica utilità, in base alla normativa; - rilascio di una concessione, di un’autorizzazione o di un atto avente effetti equivalenti; - approvazione di progetto concernente reti ferroviarie, da parte della Conferenza di Servizi.

[14] A tal proposito, va osservato che il Testo Unico in materia edilizia, pur se approvato dal Consiglio dei Ministri, non è stato ancora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, per cui non è entrato ancora in vigore ed, anzi, sussistono fortissime resistenze, le quali spingono per una sua vistosa modificazione. In tale situazione, si appalesa la ben strana evenienza di "una norma vigente che rinvia alla disciplina di una norma ancora inesistente" .L'opportuna notazione è di L. Oliveri, in Testo Unico degli espropri: La sindrome di Aristofane, in www.giust.it, n°9/2001.

[15] Articolo 9 (L) - Attività edilizia in assenza di pianificazione urbanistica
(legge n. 10 del 1977, art. 4, u.c.; legge n. 457 del 1978, art. 27, ultimo comma)
1. Salvi i più restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali e nel rispetto delle norme previste dal decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici sono consentiti:
a) gli interventi previsti dalle lettere a), b), e c) del primo comma dell'articolo 2 che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse;
b) fuori dal perimetro dei centri abitati, gli interventi di nuova edificazione nel limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadro; in caso di interventi a destinazione produttiva, la superficie coperta non può comunque superare un decimo dell’area di proprietà.
2. Nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l’edificazione, oltre agli interventi indicati al comma 1, lettera a), sono consentiti gli interventi di cui alla lettera d) del primo comma dell'articolo 2 del presente testo unico che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse. Tali ultimi interventi sono consentiti anche se riguardino globalmente uno o più edifici e modifichino fino al 25 per cento delle destinazioni preesistenti, purché il titolare del permesso si impegni, con atto trascritto a favore del comune e a cura e spese dell'interessato, a praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione di cui alla sezione II del capo II del presente titolo..15

[16] E’ possibile distinguere due tipi di Conferenze di Servizi: - Conferenza Istruttoria, la quale postula il dovere di collaborazione fra i diversi centri di riferimento di interessi pubblici attraverso un esame congiunto di questi ultimi. Una volta evidenziate le esigenze di ciascuna amministrazione, tuttavia, l’Amministrazione procedente, cui spetta di indire la Conferenza, rimane libera di determinare il contenuto del provvedimento, il quale resta suo atto proprio. – Conferenza Decisoria, la quale conduce, invece, alla determinazione finale in via collaborativa e funzionale da parte di Autorità dotate di poteri decisori.

[17] Gli accordi in esame sono disciplinati da due distinte normative: l’art. 15 della legge 241/1990 e l’art. 34 del T.U. delle Autonomie Locali, d.lgs 267/2000 (ex art. 27 legge 142/1990). Occorre evidenziare che la previsione dell’art. 15 legge 241/1990 è più ampia di quella dell’art. 34. Infatti, la prima norma parla genericamente di accordi finalizzati alla disciplina, in collaborazione, di attività di interesse comune, senza specificare in alcun modo gli oggetti, i soggetti legittimati e le procedure. Per tale ragione, tali accordi vengono qualificati dalla dottrina come “accordi organizzativi”, stipulabili da tutti i soggetti pubblici, su ogni materia di loro competenza, senza dover rispettare necessariamente procedure predeterminate. L’art. 34, secondo l’unanime opinione della dottrina, pur essendo norma di carattere speciale, non deroga l’art. 15. Infatti, il rapporto fra le due norme ed i due istituti è un rapporto di genere a specie, dove gli accordi organizzativi sono la figura generale, e gli accordi di programma ne costituiscono una importante sottocategoria. Ai sensi dell’art. 34, gli accordi di programma hanno ad oggetto la definizione e l’attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento, richiedenti l’attività coordinata di più Enti Locali, Regioni ed altre Pubbliche Amministrazioni.

[18] In particolare S. De Santis, Dichiarazione di pubblica utilità implicita, formalità garantistiche e partecipazione a procedimento amministrativo, In G.C., pag. 3310, ove afferma che è inaccettabile la costruzione tradizionale, secondo cui l’inadempimento delle formalità garantistiche, nel caso di approvazione del progetto di opera pubblica, anche con valore di variante, legittimamente avrebbe potuto essere posposto al suddetto atto di approvazione.

[19] Su tali problematiche: K. E. Forsthoff, Concetto e natura dello Stato sociale di diritto, in Stato di diritto in trasformazione, Milano 1983.

[20] L’eccesso di potere legislativo consiste nella indiretta, ma reale, contraddizione fra le disposizioni legislative ed i fini costituzionali. E’ una forma mediata di illegittimità costituzionale propria della legge ordinaria. Indici sintomatici del vizio di eccesso di potere legislativo sono costituiti dalla irragionevolezza o incoerenza della norma e dalla disparità di trattamento. L’irragionevolezza si evidenzia nella contraddizione tra le singole disposizioni dello stesso testo normativo o tra questo e le situazioni di interesse pubblico che hanno determinato il legislatore a legiferare.

[21] Il contenuto della decisione è stato, poi, ribadito dalle successive sentenze nn. 23/1978 e 234/1985.

[22] Le due sentenze incombenti sono state, invero, precedute da altre, seppur timide, pronunce: - TAR Lombardia, sez. III, n. 524 del 21/07/1994; - TAR Lombardia, sez. Brescia, n. 1009 del 23/10/1995; - Consiglio di Giustizia Amministrativa Regione Sicilia, n. 195 del 19/11/1996; - Consiglio di Stato, sez. IV, n. 1326 del 27/11/1997; - TAR Lombardia, sez. II n. 144 del 02/02/1998; - TAR Lombardia, sez. Brescia, n. 156 del 09/03/1998.

[23] L'articolo 11 II comma sembra palesare la possibilità che il vincolo espropriativo sorga dall'inserimento dell'opera pubblica nel programma dei lavori. Invero, questo sembra poco plausibile, in quanto la norma aveva un senso nella precedente previsione del Testo Unico, il quale, all'articolo 9 II comma, prevedeva di rinviare il sorgere del vincolo all'inserimento dell'opera nel programma e, quindi, dopo l'entrata in vigore del PRG. Non essendovi più una tale previsione normativa, l'articolo 11 III comma sembra non avere alcun senso.